Dante, le sue donne e la relatività di Einstein
Sperello di Serego Alighieri, astrofisico discendente del poeta, parlerà di astronomia nella “Divina Commedia” alla Festa di Scienza e Filosofia di Foligno. L’ultimo libro di Marco Santagata, magnifico affresco della cultura e delle relazioni dantesche. Un poema visivo con regia cinematografica: “Occhi” è la parola più frequente tra le 100mila complessive: ricorre 212 volte, “vedere” 205, “cielo” 168
C’è molta astronomia in tutte le opere di Dante, specialmente nella Divina Commedia. E ci sono molte donne, benché una sola, ovviamente Beatrice, gli appaia tale. Su entrambi gli argomenti esiste un’ampia saggistica, spesso ripetitiva. Non è così per due libri che il settimo centenario della morte di Dante ha propiziato.
Il primo, scritto da Sperello di Serego Alighieri e Massimo Capaccioli, è intitolato “Il Sole, la Luna e l’altre stelle. Viaggio al centro dell’universo di Dante”: lo troverete in edicola venerdì 23 aprile con “la Repubblica”. La cosa interessante è che gli autori sono astrofisici e che Sperello Alighieri è un discendente del “sommo poeta”, del quale rappresenta la diciannovesima generazione. Con lui sabato 24 aprile alle 15,30 parleremo dell’astronomia dantesca sulla web tv che quest’anno, causa Covid, trasmetterà in streaming tutti gli incontri della decima Festa di Scienza e Filosofia di Foligno (vedi www.festascienzafilosofia.it)
Foligno 1472: editio princeps
Coincidenza da notare: Foligno è la città che vide la prima edizione a stampa della Divina Commedia: l’“editio princeps” uscì dal torchio l’11 aprile del 1472, levatore fu il tipografo di Magonza Johann Numeister, allievo di Gutenberg, insieme con Evangelista Angelini di Trevi e il folignate Emiliano Orfini. La circostanza si spiega con il fatto che dopo il Sacco di Magonza del 1462 molti tipografi tedeschi portarono in Italia la nuova “ars artificialiter scribendi” con l’aiuto di mecenati, principi, vescovi e imprenditori di un Paese che all’epoca era l’avanguardia culturale del mondo.
Grande e amabile trecentista
Il secondo libro, intitolato “Le donne di Dante” (il Mulino, 238 pagine, 38 euro), è l’ultimo lavoro di Marco Santagata, uno dei nostri più grandi dantisti e conoscitori del Trecento, già professore di letteratura italiana all’Università di Pisa, purtroppo scomparso nell’autunno dell’anno scorso, quando il Covid si sovrappose a una grave malattia che stava curando. Conoscevo Santagata per chiara fama come curatore delle Opere di Dante nei Meridiani Mondadori e per una eccentrica produzione letteraria: nel 2003 vinse il premio Campiello con “Il Maestro dei santi pallidi”, pubblicato da Guanda, nel 2006 il premio Stresa con “L’amore in sé”, nel 2015 fu finalista allo “Strega” con “Come donna innamorata”. Ma se questo è l’intellettuale contrario a ogni intellettualismo, coltissimo e anticonformista, sei anni fa ho conosciuto il Santagata uomo amabile, sorridente, lieve ma non leggero, sedendogli accanto nella giuria del premio Stresa, indimenticabile compagno di conversazioni all’insegna di una bonaria e indulgente complicità. Intanto da Guanda uscivano “Il poeta innamorato”, saggio su Dante, Petrarca e la poesia amorosa medievale (2017), l’”anomalo” romanzo giallo “Il movente è sconosciuto” (2018) e “Il copista”, struggente romanzo sulla penosa senilità del Petrarca.
Tra storia e racconto
“Le donne di Dante” è il capolavoro di Santagata perché intercetta sia il grande pubblico sia gli accademici, mette insieme con straordinaria eleganza ricerca storica, analisi letteraria e narrazione divertita, empatica con i personaggi raccontati e con i lettori. Immergersi in queste pagine significa vivere con la mente nel Trecento, avvolti da un grande coloratissimo affresco (non è solo una metafora: il volume è illustrato splendidamente). Storia, pettegolezzi e intrighi di nobili famiglie trovano pari dignità nella lingua nitida ed essenziale di Santagata. In filigrana, luci e ombre biografiche del nostro maggior poeta, che fu abile nel selezionare gli eventi della propria vita, prima di politico militante e poi di esule professionista.
Fanciulla enigmatica
La figura femminile più enigmatica Santagata la sfiora nelle ultime pagine del suo libro, dove parla del soggiorno di Dante a Lucca, città degli odiati “Bianchi”. Nel XXIV canto del Purgatorio compare la profezia “Femmina è nata, e non porta ancor benda (…) che ti farà piacere la mia città come ch’om la riprenda”. Chi è questa fanciulla non ancora in età da marito che gli “farà piacere”? Dante, si domanda Santagata, “sta ringraziando per una ospitalità e una protezione ricevute o adombra una vicenda privata? Sta rendendo omaggio a una famiglia lucchese, (…) o sta revocando una storia sentimentale che ne aveva addolcito l’esilio in quella città?”. Santagata non scioglie il dubbio, “è uno di quei casi – dice – nei quali il lettore dovrebbe avere le stesse conoscenze dell’autore”, ma propende esplicitamente per la seconda ipotesi. E qui sul rigore filologico prevale l’empatia, la tenerezza di fronte al turbamento segreto di un uomo giunto al crepuscolo della vita per una fanciulla che sta sbocciando come un fiore.
Date da correggere
Passando al Dante visto dagli astrofisici Sperello di Serego Alighieri e Massimo Capaccioli, è bene premettere che astronomia e astrologia nel Trecento avevano ampi margini di sovrapposizione ma le note astronomiche riportate nella Commedia e nelle altre opere dantesche sono così “scientifiche” da permettere agli studiosi moderni utili integrazioni storiche e critiche. Prima tra tutte, la data nella quale Dante colloca l’inizio del suo viaggio, che non è la domenica di Pasqua 10 aprile 1300, come vuole la tradizione, ma la festa dell’Annunciazione a Maria del sabato 25 marzo 1301, giorno che chiudeva il XIII secolo “ab incarnatione Domini” (particolare cruciale). Ceri esaminò con cura la questione nel libretto “Dante e l’astrologia” del 1995. Se ne occupò anche il direttore del Planetario di Ravenna Franco Gàbici su “Tuttoscienze”, e io conservo la lettera di apprezzamento che mi scrisse allora Renzo Guerci, presidente dell’Associazione Studi Danteschi Tradizionali.
Nato il 2 giugno 1265
Conseguenze importanti di questa revisione: 1) la Commedia non fu scritta in ossequio al papa Bonifacio VIII, tesi che contraddice l’avversione di Dante verso questo pontefice eletto nel 1294 per mediare tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri e messo dal poeta all’Inferno ancora prima che morisse; 2) la data di nascita di Dante, prima oscillante tra il 14 maggio e il 13 giugno, si fissa in martedì 2 giugno 1265. Giovangualbero Ceri la ricavò dai versi 110-117 del XXII canto del Paradiso, che tiene conto delle congiunzioni astrali e del segno zodiacale di Dante (Gemelli).
Aveva letto Tolomeo?
Nella sua autorevole storia dell’astronomia antica John Louis E. Dreyer afferma che, diversamente da Tommaso d’Aquino e Ruggero Bacone, Dante Alighieri non doveva aver letto Tolomeo. Per Dreyer, la “Divina Commedia” rispecchia le idee cosmologiche correnti nel Trecento, improntate a un Aristotele di riporto. Con tutto il rispetto per Dreyer, c’è da dubitarne.
Cultura enciclopedica
Dante aveva fatto studi di medicina e si era formato nelle arti del Trivio o sermocinales (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (artes reales: aritmetica, geometria, astronomia e musica). Allievo di Brunetto Latini (1220-1294), aveva avuto come riferimento l’opera enciclopedica del maestro, “Li Livres dou Tresor”. Ammesso e non concesso che Dreyer abbia ragione, proprio a questa fonte indiretta e compilativa si dovrebbe la stupefacente modernità della cosmologia sottesa alla “Divina Commedia” che negli ultimi anni alcuni studiosi hanno creduto di riconoscere, facendo di Dante addirittura un precursore di Einstein.
La cosmologia delle tre cantiche
La poesia di Dante è essenzialmente visiva, la regia quasi cinematografica. Si capisce anche dalla frequenza delle parole. “Occhi” compare 212 volte ed è la più ricorrente tra le 101.698 parole che compongono la “Divina Commedia”. Seguono “disse” (208 volte), vedere (205), cielo (168). Quanto al rapporto ragione/sentimento, la parola “mente” compare 102 volte e “amore” 90. Vince la razionalità. Nel poema l’astronomia è una presenza sia emotiva (molti i riferimenti a Venere, Marte, stelle, costellazioni…) sia teorica (la “lezione” sulla Luna che Beatrice impartisce a Dante nel secondo canto del Paradiso). Ma ancora più importante è la cosmologia, in quanto non è solo un paesaggio – l’imbuto dell’Inferno che termina con Lucifero incastrato centro della Terra, la montagna agli antipodi di Gerusalemme che costituisce il Purgatorio, le dieci sfere celesti del Paradiso. E’ la struttura stessa che innerva l’intero poema e permette a Dante di affrontare la sfida suprema: la rappresentazione di Dio.
In basso e in alto
Raggiunta la sfera più esterna dell’universo aristotelico, Beatrice invita Dante a guardare verso il basso, e il poeta contempla la fuga vertiginosa dei cieli, con in fondo, piccolissima, la Terra. Poi Beatrice suggerisce a Dante di guardare verso l’alto, cioè fuori dall’universo aristotelico, dove non dovrebbe esserci nulla in quanto l’universo di Aristotele è chiuso, ha un bordo dove tutto finisce. Dante alza lo sguardo ed è folgorato da un punto di luce abbagliante – Dio – circondato da nove immense sfere di angeli.
Dio nei cerchi angelici
Dove si collocano Dio e le sfere angeliche, dato che sono fuori dall’universo aristotelico? Dice Dante: “questa altra parte dell’Universo d’un cerchio lui comprende, sì come questo gli altri”, e nel canto successivo aggiunge: “parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude”. Dunque Dio e le sfere angeliche circondano l’Universo e insieme ne sono circondati.
La teoria di Patapievici
Per secoli in questa descrizione la critica ha visto solo un geniale artificio escogitato da Dante per esprimere l’ineffabile visione di Dio. Nel 2006 si è fatta strada una nuova interpretazione: l’universo che Dante ci descrive anticiperebbe il modello elaborato da Einstein nel 1917, a conclusione della teoria della relatività generale: uno spazio curvo, illimitato ma finito, una sfera a quattro dimensioni – o ipersfera – la cui superficie sarebbe uno spazio tridimensionale (tre-sfera). Il primo a sostenere questa tesi con nitidi argomenti è stato Horia Roman Patapievici, fisico pentito passato agli studi umanistici e ora direttore dell’Istituto di Cultura romeno.
Due geometrie
E’ superfluo dire che Dante non fu il profeta né della geometria non euclidea di Riemann pubblicata nel 1854, né della relatività generale di Einstein. Il suo mondo curvo, illimitato ma finito a quattro dimensioni è l’inconsapevole risultato del tentativo di conciliare la cosmologia aristotelica con la visione cristiana: visibile e invisibile, materia e spirito, temporalità ed eternità. Ciò non toglie che sia possibile interpretare la cosmologia della “Commedia” con il senno di poi.
Disegni goffi
Punto di partenza di Patapievici è la goffaggine dei disegni che, nei secoli, hanno cercato di visualizzare l’universo dantesco, da quello di Barthélemy Chasseneux del 1529 a quello di Michelangelo Cactani del 1855, giunto quasi intatto fino alle edizioni attuali della “Divina Commedia”. Qui, oltre il cielo delle stelle fisse, dove vige ancora l’armoniosa cosmologia greca, si vede una specie di inestetica “escrescenza”, per usare l’espressione di Patapievici, che rappresenta l’empireo e le gerarchie angeliche intorno a Dio.
Orbite dei cori angelici
E’ improbabile, per lo studioso romeno, che Dante abbia potuto concepire una simile stortura. Invece tutto va a posto ricordando che Dante per un attimo coglie l’accecante visione di Dio circondato dai cori angelici usando gli occhi di Beatrice come uno specchio. “L’immagine allo specchio – ricorda Patapievici – è simile a quella reale, solo che è invertita”. Il mondo invisibile diventa allora un “calco rovesciato del mondo visibile”: l’empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica, i cori angelici orbitano intorno a Dio a velocità sempre più alta via via che ci si avvicina a Dio mentre i cieli accelerano via via che ci si allontana dalla Terra, l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile.
Ipersfera universale
Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “primo mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale. Forse fu proprio perché non aveva letto la rigida cosmologia di Tolomeo che Dante mantenne l’elasticità mentale necessaria per immaginare l’iper-universo.
Forzature da evitare
Spesso però gli studiosi hanno forzato i riferimenti scientifici riconoscibili nella “Commedia”. Su “Nature” del 7 aprile 2005 Leonardo Ricci, ricercatore dell’Università di Trento, affermava che descrivendo nel XVII canto dell’Inferno il suo volo sulla groppa del mostro Gerione (“rota e discende, ma non me ne accorgo/ se non che al viso e di sotto mi venta”) Dante mostra di conoscere il principio galileiano di relatività del moto. Così forse si potrebbe anche dire che Dante fu campione di deltaplano o che “cadendo come corpo morto cade” non solo anticipa Newton, ma anche l’esperimento mentale di Einstein che equipara gravità e accelerazione costante, e massa gravitazionale e massa inerziale. Patapievici non ama questi giochi intellettuali. La sua tesi cancella l’assurdo di un universo centrato su Lucifero (anzi, sui suoi genitali!) che emerge dal disegno di Cactani, suggerendo una cosmologia dantesca elegante e coerente. Ma – cosa più importante – mette le premesse perché si possa apprezzare in tutta la sua bellezza la cantica del Paradiso, la più misconosciuta, proprio perché, come osservò Umberto Eco, l’uomo moderno ha perso i codici teologici e cosmologici dell’uomo medievale.