Fino al 29 ottobre sarà in corso a Palermo la Settimana di Studi Danteschi, dedicata quest’anno al tema della giustizia. La questione è molto attuale considerando il tentato Lodo Alfano e le vicende giudiziarie di tanti esponenti politici di questo governo, Capo incluso, ma è anche molto appropriata per la Settimana Dantesca: non a caso sulla porta dell’Inferno c’è scritto “Giustizia mosse il mio alto Fattore”.
Bene. Il supplemento culturale de “Il Sole 24 ore”, annunciando il convegno di Palermo, ha pubblicato un lungo e lucido articolo firmato da Carlo Rovelli nel quale si spiega come l’Universo di Dante anticipi quello di Einstein in quanto esso ci è descritto come una “tre-sfera” o ipersfera, cioè una sfera inserita in uno spazio quadridimensionale. Questa tesi risale almeno al 2006, è descritta nel libro di Horia-Roman Patapievici “Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?” (Bruno Mondadori, 100 pagine, 10 euro). La cosa singolare, ma non si vuole pensare male, è che Carlo Rovelli non cita alcuna fonte, sicché quanto scrive sembra sia tutta farina del suo sacco.
Andiamo per ordine. Nella sua rinomata storia dell’astronomia antica l’astronomo danese John Louis E. Dreyer (1852-1926) afferma che, diversamente da Tommaso d’Aquino e Ruggero Bacone, Dante Alighieri non doveva aver letto Tolomeo. Per Dreyer, la “Divina Commedia” rispecchia le idee cosmologiche correnti nel Trecento, improntate a un Aristotele di riporto.
Dante aveva fatto studi di medicina e si era formato nelle arti del Trivio o sermocinales (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (artes reales: aritmetica, geometria, astronomia e musica). Allievo di Brunetto Latini (1220-1294), aveva avuto come riferimento l’opera enciclopedica del maestro, “Li Livres dou Tresor”. Ammesso che Dreyer abbia ragione, proprio a questa fonte indiretta e compilativa si dovrebbe la straordinaria modernità della cosmologia sottesa alla “Divina Commedia”.
Nelle tre Cantiche l’astronomia è una presenza continua, sia emotiva (molti i riferimenti a Venere, Marte, stelle, costellazioni) sia teorica (la “lezione” sulla Luna che Beatrice impartisce a Dante nel secondo canto del Paradiso). Ma ancora più importante è la cosmologia, in quanto non è solo un paesaggio – l’imbuto dell’Inferno che termina con Lucifero incastrato centro della Terra, la montagna agli antipodi di Gerusalemme che costituisce il Purgatorio, le dieci sfere celesti del Paradiso. E’ la struttura stessa che innerva l’intero poema e permette a Dante di affrontare la sfida suprema: la rappresentazione di Dio.
Raggiunta la sfera più esterna dell’universo aristotelico, Beatrice invita Dante a guardare verso il basso, e il poeta contempla la fuga vertiginosa dei cieli, con in fondo, piccolissima, la Terra in rotazione. Poi Beatrice suggerisce a Dante di guardare verso l’alto, cioè fuori dall’universo aristotelico, dove non dovrebbe esserci nulla in quanto l’universo di Aristotele è chiuso, ha un bordo dove tutto finisce. Dante alza lo sguardo ed è folgorato da un punto di luce abbagliante – Dio – circondato da nove immense sfere di angeli.
Dove si collocano Dio e le sfere angeliche, dato che sono fuori dall’universo aristotelico? Dice Dante: “questa altra parte dell’Universo d’un cerchio lui comprende, sì come questo gli altri”, e nel canto successivo aggiunge: “parendo inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude”. Dunque Dio e le sfere angeliche circondano l’Universo e insieme ne sono circondati.
Per secoli in questa descrizione la critica ha visto solo un geniale artificio escogitato da Dante per esprimere l’ineffabile della visione di Dio. Nel 2006 si è fatta strada una nuova interpretazione: l’universo che Dante ci descrive anticiperebbe il modello elaborato da Einstein nel 1917, a conclusione della teoria della realtività generale: una sfera a quattro dimensioni – o ipersfera – la cui superficie sarebbe uno spazio tridimensionale (tre-sfera). A sostenere questa tesi con nitidi argomenti è appunto Horia Roman Patapievici, fisico pentito passato agli studi umanistici e ora direttore dell’Istituto di Cultura romeno.
Ovviamente Dante non fu il profeta né della geometria non euclidea di Riemann pubblicata nel 1854, né della relatività generale di Einstein. Il suo mondo a quattro dimensioni è l’inconsapevole risultato del tentativo di conciliare la cosmologia aristotelica con la visione cristiana: visibile e invisibile, materia e spirito, temporalità ed eternità.
Punto di partenza di Patapievici è la goffaggine dei disegni che, nei secoli, hanno cercato di visualizzare l’universo dantesco, da quello di Barthélemy Chasseneux del 1529 a quello di Michelangelo Cactani del 1855, giunto quasi intatto fino alle edizioni attuali della “Divina Commedia”. Qui, oltre il cielo delle stelle fisse, dove vige ancora l’armoniosa cosmologia greca, si vede una specie di inestetica “escrescenza”, per usare l’espressione di Patapievici, che rappresenta l’empireo e le gerarchie angeliche intorno a Dio.
E’ improbabile, per lo studioso romeno, che Dante abbia potuto concepire una simile stortura. Invece tutto va a posto ricordando che Dante per un attimo coglie l’accecante visione di Dio circondato dai cori angelici usando gli occhi di Beatrice come uno specchio. “L’immagine allo specchio – ricorda Patapievici – è simile a quella reale, solo che è invertita”. Il mondo invisibile diventa allora un “calco rovesciato del mondo visibile”: l’empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica, i cori angelici orbitano intorno a Dio a velocità sempre più alta via via che ci si avvicina a Dio mentre i cieli accelerano via via che ci si allontana dalla Terra, l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile.
Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “primo mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale. Forse fu proprio perché non aveva letto la rigida cosmologia di Tolomeo che Dante mantenne l’elasticità mentale necessaria per immaginare l’iper-universo.