MANGIARE UOMINI, MANGIARE I FIGLI, MANGIARE DIO.
Ugolino e il male assoluto nella Divina Commedia
RUBRICA ERMENEUTICA
di
Marino Alberto Balducci
Chi era Ugolino, il celebre conte di Donoratico protagonista del XXXIII canto, uno dei più popolari della Divina Commedia? A prima vista, ci appare come un esempio lampante di ambiguo uomo politico. Filoimperiale e ghibellino di famiglia, aveva poi simpatizzato per la causa opposta dei Guelfi, i sostenitori del Papa e del potere governativo ecclesiastico, facendo anche sposare una sua figlia proprio a Giovanni Visconti, fautore indiscusso degli interessi pragmatici di quella Chiesa Romana al culmine della più iniqua sua corruzione cantata e fustigata da Dante. Eppure il nostro poeta ci mostra Ugolino non solo con simpatia, ma ce lo rende artisticamente come di certo il personaggio pietoso più commovente della Divina Commedia. Lui è all’inferno, è nel Cocìto, nell’area dei traditori politici (sembra), anche se Dante non lo considera tale. No, lui non crede al tradimento amministrativo di questo nobile uomo, ‘gentile’ non solo di sangue, ma pure di indole… di cuore puro e magnanimo.
Certo Ugolino — un personaggio disposto a tutto pur di mantenere la pace nella sua amata città, la sua Pisa — sembra davvero come un fratello spirituale di Dante, perché di lui condivide politicamente e civilmente il fondamentale ideale ‘monarchico’. E questo, questo ideale, da un punto di vista dantesco, è la fiducia nel moderatismo amministrativo della cosa pubblica e volontà di salvare ad ogni costo la pace nella città, scoraggiando per sempre ogni rivolta faziosa, per poi promuovere conciliazioni politiche fra tutte le parti dei cittadini di orientamenti diversi, in nome di quella concordia che è sacra e che sola può generare benessere e realizzazione dei più sensati obiettivi comuni. Tale fiducia nel moderatismo politico porta Ugolino ad un atteggiamento conciliatorio, e dunque a dialogare e poi anche ad aprirsi agli interessi dei suoi nemici, e così a cedere, a incoraggiare la sua città ghibellina a appoggiare molte richieste dei Guelfi più equilibrati. Ciò nonostante, malgrado le sue evidenti simpatie pei fautori del Papa, quando il nipote Nino Visconti esponente dei Guelfi assumerà alcuni chiari atteggiamenti più rigidi e intransigenti, non esiterà a esiliarlo da Pisa in nome del bene comune, come del resto fece anche Dante priore della città di Firenze più tardi, con il suo amico migliore, suo Guido, il Cavalcanti, e sempre in nome degli ideali di pace e della lotta agli estremismi violenti più perniciosi in senso civile.
E poi cosa successe? Quei capi dei ghibellini pisani più forti, il famigerato Ruggieri degli Ubaldini, arcivescovo, e in seguito i maggiorenti Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, dopo l’esilio di Nino, il nipote guelfo, furono fatti rientrare nella città da Ugolino. Così, a quel punto, invece di gratitudine, questi mostrarono per ‘ricompensa’ il tradimento. Eccoli i traditori politici che nell’inferno, per Dante, meritan tutti i tormenti di quell’immondo lago ghiacciato e cloaca che segna il fondo profondo di ogni sciagura e contaminazione. Qui Ugolino si trova. E lo vediamo assieme all’esponente più facinoroso di questi dannati, Ruggieri. Lui, Ugolino, è al di sopra dell’altro — come un grottesco ‘cappello’ — con la sua testa; e poi ne mangia il cranio alla nuca. Lui lo divora il suo persecutore: quel prete che non conosce la carità e lo ha imprigionato dentro la torre delle colombe, la Muda, nel centro di Pisa, assieme a loro, ai suoi figli e ai suoi nipoti piccini. Il prete, Ruggieri… lui lo ha tradito, come ha tradito quel significato profondo delle alleanze del conte Ugolino e il senso puro del destreggiarsi fra i punti estremi della politica in nome di un ideale concetto di pace, considerato nel cuore il bene più grande. Lui, quel Ruggieri, lo ha fatto morire, Ugolino. Lui… lui è il traditore che merita tutto il suo inferno e quella pena di esser mangiato dalla sua vittima: l’uomo che è poi impazzito lassù, nella torre e che — dopo la morte dei suoi ragazzi e bambini — si è messo cieco a vagare sopra quei corpi e li ha divorati… per farsi male e per sfogare il suo odio verso i nemici, il suo mondo, la sua città: la crudele e «novella Tebe», sua Pisa.
Ecco, dentro l’inferno dantesco l’evocazione del morto Ugolino e del suo spettro dannato si mostra appunto attraverso le immagini della tragedia tebana nel virgiliano poema di Stazio. Il libro ottavo di questo si apre, in quella sua fine tremenda, proprio con gli echi degli ultimi versi, dentro la mente del nostro poeta. Dante rievoca nel suo volume infernale quel Tìdeo di Grecia e il cannibalismo, lo strazio di Menalippo, il nemico di cui il guerriero morente vuole la testa, e poi l’azzanna e ne sfilaccia coi denti il cervello. Questa è la scena più orrenda e indecorosa di tutta l’opera antica. Segna davvero l’esempio più basso di inciviltà nella storia di quella guerra lontana e degli odi che (molto prima che a Pisa) han dilaniato la società degli umani e ne hanno indicato comunque il perverso destino. Eccolo il dedecus, la turpitudo, che è poi il contrario del decus, del decor, della bellezza ed onore. Atena giunge a vedere la scena in quel poema di Stazio, a conclusione del canto. E poi lei fugge inorridita. È disgustata. Lei nega dunque il gran dono di immortalità a quell’eroe suo protetto, suo Tìdeo, perché lui si è degradato e ora è ignobile, è come una bestia, completamente umiliato dall’odio e incapacità di controllo di sé. Lui è vera preda delle passioni più basse. Lui è folle. Non uomo: è subumano. Lui è spregevole, per quella mente dei greci e dei latini, la mente che è abituata a considerare nel lògos il bene più grande, nella ragione e mesòtes aristotelica, nell’equilibrio interiore il nostro tesoro, quello che può generare l’eroicizzazione del transeunte. Sì, quella mente esaltava nell’ataraxìa e aponìa ed apàtheia il comportamento ideale: l’imperturbabilità filosofica dell’uomo eccelso, che non si lascia sconvolgere da eventi esterni intorno a lui.
Comunque, ora noi qui, nell’Inferno di Dante, non siamo più fra i pagani. Qui siamo nel mondo nuovo, quello che adora la croce e l’ignominia più sporca di quell’orrendo supplizio e brutalità della carne straziata e dell’abbassamento di ogni nostro decoro: abbassamento ed humilitas che però sempre e comunque è garanzia di scoperte inenarrabili e nuova vita divina di Figli e eredi della Salvezza. Dante, il pellegrino d’inferno, non assomiglia di certo ad Atena, dea della Grecia e della ragione. Dante è il poeta del tempo diverso, un tempo che è folle e che si affida alle forze al di là di ogni nostro controllo, al Mistero fuori di noi. Dante non inorridisce davanti al cannibale. Dante lo riconosce, lo guarda. Ne ha compassione, perché lui sa che quell’uomo ha vissuto il dolore più grande: ha visto uccisi i suoi figli, non li ha potuti aiutare. Come cristiano il poeta non indietreggia, non ha paura e ribrezzo. Non può: lui che ha imparato a adorare una croce piena di lacrime e sangue ed urina ed escrementi, la croce di un condannato che — nudo, per ore, davanti a tutti — ha aspettato la morte… e si è stupito col Padre che lo abbandonava, ha urlato poi come una bestia, comunque si è abbandonato e ha pregato — sempre — per gli altri, per la salvezza degli altri che non capivano. No, un cristiano (seppur confuso e perduto dentro il suo buio) non può davvero inorridire davanti al mistero del cannibalismo: lui che il suo Dio lo ha autorizzato a mangiarlo… nel farsi pane. Questo cristiano e poeta ascolterà senza indugi tutta la storia, quella che i documenti ci testimoniano, e pure quell’altra, diversa, che è meramente legata ai sortilegi umanissimi di evocazioni poetiche e che fa breccia nel nostro nero interiore.
Allora, qui, Ugolino risorge dalla sua buca (come si vede alla fine del canto XXXII); lui alza gli occhi e la bocca da quel suo pasto ferale. Ora lui è uomo, non è più cane. Ritorna un’altra volta aldilà di quel buio e pazzia, grazie all’amore. Rivive ancora ed ancora il suo dramma, fra le parole e il suo pianto, senza capire purtroppo che dalla torre poteva fuggire, e non lo ha fatto… demente e disperato. Nel desiderio di pianto, in quell’alzare la testa e disporre la sua figura in maniera diversa dal traditore politico, il prete Ruggieri, questo dannato ci mostra segretamente che occupa un luogo ambiguo (come il suo stesso programma politico) dentro l’inferno. Sì, Ugolino per Dante — e lo abbiamo detto — non è il traditore di Pisa. Lui è tradito dalla città e dal governo, dai Ghibellini più estremi. No, Ugolino è in realtà un personaggio che appare proprio oltre il limite appena dell’Antenora. Lui è invero un condannato di quella zona seguente del lago infernale: quella che accoglie i traditori degli ospiti, dei commensali. Lui è uno spirito errante di Tolomea come Alberigo, il frate gaudente che occupa la parte estrema del canto in maniera emblematica. Qui avviene l’inaspettato. Difatti, in questo canto terribile, che è propriamente il più tragico della Divina Commedia, tutto finisce sorprendentemente con quella scena del gabbo (Dante che burla da pellegrino il frate Alberigo), un episodio grottesco che poi trasforma l’orrore in una sorta di tragicommedia.
Certo, noi non dobbiamo temere e non dobbiamo sorprenderci. Tutto, anche le cose più orrende, in quella croce e mistero, poi mutano i loro segni, dentro la Gioia. È resurrezione, è vita eterna. Sì, è vero: eccolo il nostro destino inevitabile e bello di diventare immortali. Non c’è tragedia che possa più veramente impaurire, nel tempo nuovo, in quello cristiano. Chi muore, poi può risorgere: e questo ci è rivelato. La morte e l’odio ora rompono — nel nostro mondo, nel tempo — una continua energia che ogni volta… è ricreata da Amore. Questo è il messaggio: l’Amore è il solo Assoluto, non certo l’odio od il male. Questa è la legge, il supremo comandamento (e poi l’unico in fondo) che quel Maestro, quel figlio del falegname, ci ha dato. Non lo ha capito Ugolino purtroppo, a questo punto; ma lo han capito i suoi figli, i suoi nipoti. Lui è impietrato. Davvero lui non ha pianto. Si è controllato perfettamente, quando l’usciolo del cibo è stato serrato, in quella torre, al mattino, e loro (i loro aguzzini) li hanno lasciati a morire di fame. Ma non è tutto finito, di certo. No, non per quelli, per gli altri là dentro: quei giovani e quei bambini. Loro hanno visto il sole che entrava, il «poco di raggio». Loro hanno visto lo squarcio dentro la torre e… luce, in quella rovina. Si sono offerti per pane al loro babbo e gli hanno chiesto l’aiuto. Volevano solo quel nulla (che è Tutto): un solo gesto d’amore, uno scambio, scambio d’amore. Ma lui, Ugolino… lui non si è mosso. Si è fatto come una pietra: imperturbabile: quasi un filosofo antico, un magnanimo spettro del limbo. È diventato campione di ataraxìa.
Ma che cos’è?… cos’è questo autocontrollo e l’apàtheia per un cristiano, per un cristiano che ha visto il crollo di Roma: quella che, retta da leggi giuste perfette e razionali — poi estese a tutto il mondo, all’Impero — era franata e divorata, incendiata, stuprata da quegli uomini bestia nel quinto secolo?… Allora Agostino, il santo di Ippona, aveva visto Alarico, aveva visto quei templi e gli dei orgogliosi ridotti in cenere, udendo pure quegli urli, aveva visto quegli uomini e donne e bambini poi uccisi, violati, aveva visto la Bestia laggiù, orgogliosa e trionfante su tutto. Ed è così che Agostino capiva quanto davanti all’Eternità sia ridicola la nostra boria. Quell’equilibrio mentale (presunto), tutto il distacco e imperturbabilità di ogni chiaro filosofo quieto e razionale non serve a nulla, alla fine; non può resistere ad una forza più forte — perché selvaggia e sbrigliata — che non conosce catene. Il Super-Io non uccide la furia dell’Es, se ora vogliamo qui un paragone con il pensiero freudiano. Come Virgilio non ha potuto resistere a quei richiami bestiali di quella strega, l’Erìchto (e lui ce lo ha confessato alle porte di Dite), così anche Roma sarà obbligata a cadere in mano agli uomini barbari, molto più forti delle legioni romane, perché imprevedibili, perché incivili e totalmente spietati, perché irrazionali. No, l’equilibrio di quegli antichi filosofi è insufficiente, in prospettiva cristiana, è insufficiente la loro ironia. Sembra nascondere il male ma, in fondo, non lo sconfigge. Lo copre. Se ne distacca. Si tiene a distanza, con molto pudore, con alto decoro. Comunque, non lo sconfigge. Piuttosto solo lo irrita e lo prepara a attaccare, più forte e ancora più forte. Poveri grandi filosofi, poveri illuminati e presunti sapienti di scuole platoniche, aristoteliche e stoiche e epicuree. Loro non sanno che in quello stato dell’animo — così orgoglioso e vanesio — non fanno che partorire dei mostri della ragione più lucida, più controllata. Nella sua Civitas Dei ce lo ha ben detto Agostino: l’apatheia è un’illusione e è senza dubbio il vizio più grande. Certo, il filosofo antico imperturbabile solo nasconde l’immanitas, che è la ferocia e che è mostruosa. Sì, quell’orgoglio è solo stupido (è Bestia), è solo crudele. Lui non ricambia l’amore, lui non dimentica l’odio, non lo trascende e mai davvero lo può rivolgere in una forza sublime che porti alle stelle.
Ed Ugolino, davanti all’amore di quei sui figli e nipoti, ha compiuto il suo tradimento: il tradimento di Tolomea, che è tradimento degli ospiti, dei commensali. Rifiuta il ‘corpo di Cristo’. Si scandalizza. Poi, impazzito, lo prende. Lui dopo mangia i ragazzi, mangia i bambini; ma… è troppo tardi. Ha tradito, non è più lui. È perduto dentro il suo odio. E lui ora sogna già di mangiare quell’altro: il traditore degli ideali ‘monarchici’, il prete, Ruggieri. Ugolino è come un cane. È demonio, non è più uomo. Questo è il «vantaggio» comunque di Tolomea (come ci dice Alberigo, il frate gaudente che ha fatto uccidere i suoi congiunti alla mensa e se ne è gabbato): quando tradiamo — completamente — quando arriviamo a contaminare del tutto la nostra anima, a fare la scelta della menzogna che nega la Verità, noi… non siamo più noi. No, noi siamo allora abitati da un nero demonio. Quando il peccato (che è poi errore mentale e comportamentale) ci invade tutti e dunque ci uccide, uccide il vero dentro di noi totalmente, come peccato mortale. Però noi siamo, a quel punto, in qualche modo protetti dentro l’inferno. Sì, sembra ironico; eppure in quel momento l’inferno ci custodisce, ci predispone ad avventure ulteriori. Il cristianesimo non concepisce il male assoluto ed oltrepassa così il dualismo della cultura pagana. Solo il contrario del male — che è il Bene — è un assoluto: esso è l’Amore che tutto avvolge e compenetra. E questo Amore ha pietà dei suoi figli dispersi nella materia terrestre, quando nel massimo di quella nostra insipienza vogliamo errare.
Ecco, si crea — come dire?… — a questo punto uno sdoppiamento. Noi nell’errore cadiamo all’inferno, dentro l’angoscia, il tormento; comunque… quasi in custodia cautelare. Ma siamo vivi! Noi siamo ancora fra i vivi, nel mondo, nei nostri corpi, sebbene non siamo più responsabili di quelle azioni terribili che compiremo da quel momento e che saran giudicate dagli uomini e dalla storia come espressione del male assoluto. No, in quel male non siamo noi; perché il corpo a quel punto, come la mente, è posseduto dal diavolo. Tutti i malvagi e indemoniati non sanno quello che fanno — come fu detto a Gerusalemme dall’urlo sopra la croce — per questo devono avere il perdono. Del resto, è stato chiaro Giovanni, l’evangelista (e Dante, a conclusione della discesa infernale e perlustrazione del nero dentro di noi, non fa altro che riconfermarlo): Giuda è colpevole, eppure si può salvare, perché nel tempo del tradimento dentro di lui entra Satana e assieme… entra anche il corpo sacramentale di Cristo, da lui mangiato durante l’ultima cena. Quello che fa da quel punto quell’uomo, quel traditore, non è più lui che lo compie, ma l’altro, il demonio: è schizofrenia. Lui… lui ormai… lui è altrove in custodia, il peccatore. Non se ne accorge, comunque lui è abbracciato e protetto dal suo Maestro. Giuda così — come il simbolo del tradimento supremo dell’uomo (il tradimento di chi si è fidato di noi e che ci ama), la forma di male più grande — è imprigionato dentro il suo cuore di ghiaccio, un cuore che è in apparenza insensibile e rappresenta la sua natura spietata. Ma non è vero.
Là, nel Cocito — dove si trova Ugolino e tutti gli altri campioni di frode, i traditori — c’è una gran voglia di piangere. Tutti quei morti sono umiliati dal loro stesso errore interiore. Son tutti in sofferenza e sprofondati nell’acqua: il pianto e lago amarissimo che è congelato. Solo nel centro le lacrime possono scorrere libere e dare un aiuto. Sì, ci sorprendono. Perché là scorrono sopra quel corpo che è il più mostruoso di tutto l’inferno: il corpo orrendo del suo imperatore, Lucifero, supremo archetipo del tradimento e dell’angoscia di sofferenza che ad esso si lega. Lui è lo schiavo del mal volere. Divora i traditori più oscuri, ma… piange. E sono lacrime vere, lacrime calde, roventi: scavano il ghiaccio intorno al suo corpo, ci fanno strada. Eccolo il nostro padre fasullo — che è solo un padre adottivo — legato al tempo e alla storia del mondo, all’esistenza. Il suo e il nostro dolore (e il nostro errore) ha dunque scopi precisi: è finalizzato ed è orientato. Il male non è assoluto, e non è certo il Vero Assoluto. Non rappresenta un compimento od un fine. Invece è uno strumento. Spinge la nostra interiorità verso il fondo; e la prepara a conversioni inevitabili e giuste e necessarie. Proprio il suo corpo — il corpo del mostro, di Satana — diventa strada al pellegrino (l’uomo in viaggio che fora l’inferno, che lo trascende, che ci rappresenta), e le sue lacrime poi dentro il buio — come un ruscello — lo condurranno alla luce di nuovo… a rivedere le stelle.
*** Questo articolo ripropone i contenuti essenziali della cinquantaquattresima conferenza-spettacolo del programma ‘Evocazioni Dantesche’, organizzata il 22 maggio 2012 da Maria Rita Landini, presidente del Soroptimist Club International d’Italia – Costa Etrusca,
presso il Circolo Culturale ‘Il Fitto’ di Cecina – Livorno, con la collaborazione artistica di
Marino Filippo Arrigoni (Compagnia Teatrale Progetto Idra) e Arianna Bechini ***
Marino Alberto Balducci, dirige in Toscana il centro di ricerche dantesche Carla Rossi Academy – International Institute of Italian Studies (Ente non-profit di formazione e ricerca che, dal 1994, ha iscritto ai suoi vari programmi studenti e studiosi delle maggiori università del mondo, inclusa Harvard). Per molti anni ha insegnato alla University of Connecticut U.S.A. e è stato Visiting Scholar alla University of Delhi. È autore di studi critici sull’arte, la filosofia e la letteratura italiane di vari periodi, dal Medioevo al Novecento. Come poeta ha dato voce a esperienze spirituali legate ai suoi viaggi in India. Mario Luzi ha scritto su di lui, prima di morire. Con Arianna Bechini, fin dal 2007 organizza in Italia e all’estero Evocazioni Dantesche. Un Viaggio nella Divina Commedia (Immagine, Danza, Musica e Parola), un programma di conferenze-spettacolo & performance art patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, assieme alla Società Dante Alighieri di Roma, al Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali di Ravenna ed alla Società Dantesca Italiana di Firenze. A Carla Rossi Academy-INITS sono aperti a tutti i suoi corsi di Scrittura Creativa, Storia dell’Arte Medievale, Ermeneutica Dantesca e Terapia dello Spirito nella Divina Commedia.
Recentemente Balducci ha espresso il suo punto di vista sulla modernità del poema di Dante nel romanzo filosofico Inferno. Scandaloso mistero (“Premio L’Autore/Firenze Libri 2010”), appena pubblicato a Milano e reso disponibile in rete da < Libreria Universitaria.it > e da
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