Dante classico e moderno.Immagine di Beatrice abbelliscono i gradini della stazione «Università» della metropolitana di Napoli. È un omaggio che l’architetto anglo-egiziano Karim Rashid ha voluto rivolgere al padre della letteratura italiana per sottolineare il legame tra la cultura umanistica e i linguaggi contemporanei
Dante è, sempre più, un autore del XXI secolo, e classico che ogni editore francese ha in catalogo; la lista delle versioni della Divina Commedia è impressionante: oltre alle classiche traduzioni di Jacqueline Risset (Flammarion), di André Pézard (nella Pléiade), di Marc Scialom (La Pochothèque), dovremmo almeno evocare quelle di Lucienne Portier (Cerf), di Jean-Charles Vegliante (Imprimerie Nationale), di Alexandre Masseron (Albin Michel), di Didier Marc Garin (Éditions de la Différence), di Alain Delorme (Édilivre), di Claude Dandréa (Orizons), senza contare le traduzioni in corso di Danièle Robert (Actes Sud: è apparso l’Enfer, 2016) e di Michel Orcel.

Su tutte spicca, per la novità della impostazione, quella di René de Ceccatty, La Divine Comédie, apparsa nell’autunno 2017 da Points. L’autore è ben noto per i suoi saggi su Pasolini, su Leopardi, per i suoi romanzi, e rielaborazioni per il teatro. Qui egli sceglie di volgere l’endecasillabo dantesco in ottonari; decisione coraggiosa e ardua, che può lasciar perplessi, sapendo che il poema dantesco, già così stringato, “perde” così, ad ogni terzina, quasi un verso. «Perché scegliere l’ottonario – s’interroga l’autore stesso- che aggiunge un obbligo di concentrazione, allorquando i miei predecessori hanno preferito l’alessandrino, l’endecasillabo o il decasillabo? Il ritmo musicale e flessibile di otto piedi non obbliga il versificatore (al contrario dell’alessandrino) alla cesura mediana che inchioda il corso del verso, e rende il testo più dinamico, danzante, meno cadenzato come un pendolo». Segue, in questo, l’osservazione di Mandel’štam, il quale riconosceva nella Commedia «una vera fame di fendere lo spazio», «ogni vocabolo ha fretta di esplodere, volar via dalle labbra, fuggire, lasciare il campo ad altre parole», per concludere: «Nel parlare di Dante, è più giusto riferirsi alla creazione di slanci, anziché alla creazione delle forme […] Una scienza che abbia per tema Dante punterà, così io spero, allo studio del rapporto di subordinazione fra slancio e testo» (Conversazione su Dante).

Presa questa via, il ritmo diventa precipite, necessitato da una teleologia del fine ultimo, che non lascia requie né pausa; si prenda allora la clausola – possente – di Inferno XXXI quando Anteo afferra Virgilio e Dante e li posa al fondo della terribile ghiaccia infernale: «e come albero in nave si levò» (XXXI, 145): ebbene Ceccatty contrae ancora, ed eleva: «Il se redressa comme un mât» (essendo scontato che mât è per antonomasia l’albero della nave). O si scelga un momento ancor più solenne quale il discorso di Virgilio che incorona Dante, al sommo del Purgatorio, sovrano del proprio libero arbitrio: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / […] / perch’io te sovra te corono e mitrio» (XXVII, 139-142). Sappiamo che la dittologia finale «corono e mitrio» risale all’incoronazione medievale dell’imperatore, come ci testimonia una cronaca del primo Duecento per l’elezione di Ottone IV: «Oddo coronatus Imperator […] mitratus et coronatus ivit cum domino Papa usque ad portam Romae», ma lo sappiamo non da Dante bensì dai commenti (qui di Anna Maria Chiavacci Leonardi); insomma intendiamo il valore del verso dantesco alla lettura seconda, mentre l’ottonario di Ceccatty va dritto all’essenza di ciò che è promulgato: «Je n’en dirai, ferai pas plus. / Ton libre arbitre est droit et sain:/ […] / Je te déclare souverain». Si perde il riferimento all’allusione imperiale, alla dignitas aulica della dittologia, ma si erge – umanisticamente – l’idea di sovranità dell’uomo su se stesso.

È un Dante che elude le spire del tempo e aguzza la freccia dell’eternità. Per questo ancora, Ceccatty privilegia – come già Giovanni Getto – la cantica del Paradiso: «La grande austerità stilistica del Paradiso discende ad un tempo dal contenuto teologico e dalla topografia (si è abbandonata la geografia familiare della Terra, per passare a un’astronomia più astratta) […]. Dante non cammina più con le sue guide, ma vola con una traiettoria immediata che elide le descrizioni, al contrario della discesa agli Inferi e alla salita al Purgatorio. I dialoghi così con gli spiriti beati o con Beatrice hanno una eccezionale forza luminosa e la fluidità del canto più ancora s’accentua» (così nell’ampia Introduzione che è un acuto saggio di esegesi dantesca). Accentrarsi sull’essenziale vuol dire –per l’autore – prendere la Commedia «come un manuale di meditazione e un libro d’avventure»: l’ottonario facilita certo il secondo (il testo corre, balza di ripa in ripa e si sale vertiginosamente da un ordine all’altro delle anime purganti, e dei pianeti celesti). Ben più difficile era tenere il punctum del saliente meditativo: Dante stesso ci avverte, nel cuore del Paradiso: «ché ’l piacer santo non è qui dischiuso, / perché si fa, montando, più sincero» (XIV, 138-139); ecco allora il traduttore eludere la forma indiretta e concentrarsi sull’affermazione del principio: «Car le saint plaisir est latent, // De ciel en ciel, plus authentique».

C’è quasi una pedagogia di spoglia serenità cistercense, in questo Paradiso, che ogni tanto va oltre il compiaciuto indugio dantesco: «Affetto al suo piacer, quel contemplante / libero officio di dottore assunse, / e cominciò queste parole sante» (Par., XXXII, 1-3); è un san Bernardo al quale Ceccatty toglie ogni divagazione sul “piacer” dell’affisarsi: «Saisi par sa contemplation, / Spontanément il m’expliqua / Dévotement notre vision». Avevo iniziato la lettura pensando a un Dante ridotto alle misure ansanti dei nostri tempi frettolosi, a un ottonario di mera urgenza. A percorso ultimato, rimane ben più di questo: e si deve convenire, con l’autore, che con felice esito egli abbia più obbedito all’ “esprit de finesse” del senso ultimo che a quello di “géometrie” della costruzione locale. Si sente quella sobrietà drammatica, di fronte ai destini dell’umanità, che fece di Marx (come ho mostrato lo scorso 30 aprile 2017, presso la Casa di Dante in Roma, e ho ripreso nel mio volume Europa ritrovata) uno strenuo lettore, e consenziente, della Divina Commedia; e come ancora lo fu Walter Benjamin secondo la serrata analisi che Pier Mario Vescovo propone – facendo giustizia di fantasiose recenti attribuzioni – nell’imminente fascicolo della rivista «Lettere Italiane».

Un Dante europeo, compreso come filosofo dei fini universali più che poeta ristretto ai riti dell’amor cortese. E la sete di questo “fine ultimo”, e necessariamente da porre per primo alla percezione d’un mondo distratto, detta spesso a Ceccatty soluzioni dirette rispetto alle studiate posposizioni dantesche: «Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira, / lo primo e ineffabile Valore…» (Par., X, 1-3) : «La Valeur suprême, indicible / regardant son fils avec l’Amour / Éternel que tous deux s’inspirent»; una Trinità, dunque, dichiarata e presente.

In questo XXI secolo un poema luminosamente frontale ci attende.

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