Dante Alighieri fu il primo ad immaginare l’aldilà, scrivendo una delle opere più importanti della storia della letteratura. Ma in realtà, cinquant’anni prima del Sommo poeta, già un altro aveva scritto di Inferno e Paradiso: si tratta di Bonvesin de la Riva, lo sconosciuto autore di una “Commedia” molto particolare, scritta in dialetto lombardo.

Cinquant’anni prima che Dante la scrivesse, regalando al mondo una delle opere più affascinanti ed importanti di sempre, la Divina Commedia “esisteva” già: un lungo poema scritto in versi, suddiviso in tre cantiche, che racconta in modo colto e raffinato del rapporto dell’uomo con l’aldilà. Il testo in questione ha una caratteristica davvero curiosa: è interamente scritto in lingua lombarda. Il suo autore fu Bonvesin de la Riva: nel 1274, molto prima che Dante Alighieri iniziasse la sua opera più famosa, questo sconosciuto scrittore di origini milanesi pubblicava il “Libro delle Tre Scritture”. Una vera e propria “Divina Commedia” ante litteram. L’opera di Bonvesin de la Riva ha sempre avuto un’importanza marginale rispetto alla più nota Commedia, ma a ben vedere si tratta di un testo estremamente innovativo, anticipatore di moltissime tematiche care a Dante. E non solo: il Libro delle Tre Scritture è una delle testimonianze più ricche e complete di quella che doveva essere l’antica lingua lombarda che viene utilizzata non come un semplice dialetto, bensì come un volgare illustre e raffinato, perfettamente coerente al tema “alto” trattato dal poema. Una vera e propria lingua letteraria, che in tutta la sua complessità riunisce le antiche parlate della Lombardia che, nel medioevo, indicava il territorio dell’intero nord Italia.

La rosa molta fiadha ke da maitin resplende, Lo so color da sira delengua e dessomente: Cotal sì è la vita de zascun hom vivente, Le glorie mondane tut cazen in niente.

L’opera di de la Riva è unica nel suo genere, e non soltanto dal punto di vista linguistico: prima di Dante infatti le opere poetiche incentrate sull’aldilà e sul destino dell’anima dopo la morte erano pochissime. Il Libro delle Tre Scritture è l’unico in dialetto lombardo a raccontare, con chiarissime ispirazioni francescane, il lungo viaggio dell’uomo attraverso i regni infernali fino alla risalita in Paradiso.

Nigra, rugia e aurea: le tre cantiche di Bonvesin

In questo nostro libro da tre guis è scrigiura: La prima sì è negra e è de grand pagura La segonda è rossa la terza è bella e pura, Pur lavoradha a oro ke dis de grand dolzura.

Alcuni critici hanno definito il Libro di Bonvesin una “mirabile sceneggiatura dell’aldilà” suddivisa, proprio come la successiva Commedia, in tre parti: la prima, intitolata “De scriptura nigra”, in cui con un linguaggio ricco di metafore e non privo di immagini forti e sconvolgenti narra delle “dodex pen dr’inferno”. La seconda, “De scriptura rugia” è direttamente ispirata alla passione di Cristo e la terza, proprio come nel viaggio dantesco, è incentrata sul Paradiso e sulla “cort divina, zoè dre dodex glorie de quella terra fina”. “Quant l’om serà plu alto d’aver e de possanza, de nobili parenti, de honor ke i sovravanza e de grand segnoria e de grand castellanza, tant el ha molta fiadha plu brega e plu turbanza”: la condizione umana è descritta da Bonvesin de la Riva con un’accuratezza di particolari che ne restituiscono tutta l’intensità della riflessione esistenziale, basata sulla naturale propensione dell’uomo al peccato e alla dannazione. Oltre ad essere stato il primo a tradurre in lingua volgare la teologia dell’epoca, pare che Bonvesin sia stato anche uno dei primi ad inserire nella sua architettura infernale la legge del contrappasso: anche in questo testo le pene dei dannati appaiono commisurate “a tug li soi peccai”, e con un’accuratezza pari solo alla successiva Commedia dantesca. Il fuoco brucia i lussuriosi e gli avari, mentre i vermi rodono in eterno coloro che in vita hanno ingannato il prossimo; le terribili grida dei dannati tormentano chi in vita si è dedicato alle facezie mondane come la musica e la poesia, mentre tutto lo scenario infernale, terribile forse anche più di quello dantesco, rappresenta il corrispettivo di una vita trascorsa a cercare la vana bellezza esteriore.