Nel nuovo libro di Dan Brown c’è un Dante enorme in copertina. Perciò ho intrapreso Inferno (Mondadori) con grandi attese, speravo in un avvincente complotto internazionale con passato e presente che si incrociano e tutto passasse o culminasse nell’autore della Divina Commedia. Invece sono stato deluso. Il complotto c’è, è mondiale, ma Dante c’entra poco. Nessuna battaglia tra Chiesa e antiche sette o Dante capo dei templari. La storia è più simile a quella della serie tv inglese, Utopia, e la Divina Commedia serve solo come chiave. È una caccia al tesoro, ma al posto degli indovinelli ci sono le terzine dantesche.

In realtà, la tradizione di legare Dante ai complotti è antica perlomeno quanto il complottismo. La prima lettura di questo tipo della Divina Commedia risale a Gabriele Rossetti (padre del più noto Dante). Scrittore mediocre, infarcito della più deteriore Arcadia, Rossetti è per certi versi il prototipo del cospirazionista moderno. Nazionalista convinto, di cultura poco più che modesta, a un certo punto della sua vita – come capita a ogni buon autodidatta – si invaghì di Dante e pubblicò studi secondo i quali nella Divina Commedia esistono dei segreti nascosti. Prova principe questa terzina: «O voi che avete gl’intelletti sani, /Mirate la dottrina che s’asconde /Sotto il velame degli versi strani» (Canto IX, Inferno). Versi da allora fondamentali per affermare che nella Commedia esiste un «paradigma del velame». Rossetti sostenne che nel poema l’allegoria vera era sempre stata nascosta dai cattivi. Il Lucifero dell’Inferno era la rappresentazione del Papa. Il Dio del Paradiso, l’Imperatore. Purtroppo, diceva anche di non poter offrire un’interpretazione ottimale perché questa era concessa solo agli iniziati, gli intelletti sani, e lui sfortunatamente non lo era. Pochi anni dopo, il deputato francese Eugéne Aroux, decise che scoprire il velame sarebbe stata anche la sua missione. Abbandonò la politica e condensò le sue opinioni in Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste. Il Poeta, a suo dire, sarebbe stato membro di una setta legata agli albigesi e ispirata alle prime comunità cristiane.

Il passaggio successivo avvenne ad opera (misconosciuta) di Giovanni Pascoli. Pascoli fu il primo complottista a fare del vittimismo una chiave del proprio stile espositivo. Si dichiarava vittima del “sistema” universitario per immedesimarsi con Dante vittima del “sistema” cattolico. (Lo stesso Dan Brown confonde i piani. Sostiene di aver bisogno – mi auguro per pubblicità – di guardie del corpo che lo proteggano da terroristi cristiani e così dà peso ai complotti dei libri). Soprattutto, Pascoli sfruttò a lungo la figura del «superdestinario», un tipo di destinatario che il critico letterario Michail Bachtin definì senza immaginare quanto avrebbe preso il sopravvento con la rete. Bachtin scrisse che oltre al destinatario di un’opera, colui che, con tutti i suoi limiti, comprende e analizza un testo, esiste anche un «superdestinatario» che analizzerà il testo e lo comprenderà in una lontananza metafisica o in un tempo storico lontanissimo. Sono le opere che fingono di essere rivolte a Dio, alla Verità Assoluta, alla storia, e via dicendo. I video più folli di Casaleggio, o gli ormai celebri video di Zeitgeist si rivolgono a un destinatario fingendo di essere rivolti a questo superdestinatario: l’intelligente capace di vedere oltre il «velame».

Ma tornando a Pascoli, qual era per lui il segreto nascosto nella Divina Commedia? Nessuno. Non ci sono sette, massoni o eretici. Semplicemente Dante per gusto quasi enigmistico avrebbe nascosto un sistema di punizioni e castighi in una maniera estremamente più complicata di quanto appare. Le idee di Pascoli ebbero un certo successo grazie a uno dei suoi allievi: Luigi Valli. Più debole negli argomenti, Valli poté giocare a suo favore una carta formidabile: il fascismo. Le sue teorie ebbero maggiore eco perché fu un fascista convinto fino alla morte. Ebbe un infarto mentre inaugurava un Istituto di cultura fascista esponendo una teoria per cui nella Commedia c’è una profezia dell’avvento del Duce.

Sebbene nel dopoguerra letture ancora più bizzarre fioriscano, come quella numerologica di Rodolfo Benini, provata recentemente in forma di romanzo con successo da Francesco Fioretti, 300mila copie per Il libro segreto di Dante (Newton&Compton), il vero precursore di Dan Brown è un insospettabile, uno dei principi dell’esoterismo: René Guénon (noto in Italia grazie alla fiducia che Franco Battiato e Adelphi hanno sempre riposto nelle sue abilità). Per lui, frequentatore di scuole “ermetiche”, membro dell’Ordine Martinista, della loggia simbolica Humanidad, del Capitolo e Tempio INRI del Rito Primitivo e Originale Swedenborghiano, nonché munito del cordone di seta nera dei Kadosh, patentato all’interno del Grande Consiglio Sovrano del Rito di Memphis-Misraïm per la Francia, Gran Commendatore del Tempio per precisa volontà di un’entità evocata, vescovo della Chiesa Gnostica; Dante fu uno dei capi della Fede Santa. E massone di rito scozzese. Prove? Nessuna, ma grande capacità di manipolare e teorie affascinanti in virtù delle quali L’esoterismo di Dante è l’unico saggio della storia della critica dantesca ad essere anche un long-seller. (Ristampato di recente ancora una volta da Gallimard).

Ma, oltre al successo editoriale, tra Guénon e Dan Brown ci sono perfino similitudini di trama. L’apertura del secondo capitolo de L’e soterismo di Dante potrebbe essere identica in Inferno. Guénon dice di essere a Vienna in un museo. Quale? Non è dato saperlo. Dovemo fa a fidasse. Lì trova una medaglia che raffigura Dante. Credibile? Ma è Guénon, perché non credergli? Sul rovescio ci sono le lettere F.S.K.I.P.F.T. Non vi dicono niente? Per Guénon sono le prove del templarismo di Dante perché questa sigla si legge Fidei Sanctae Kadosch, Imperialis Principatus, Frater Templarius. Metteteci un pazzo che prova a uccidere Guénon-Langdon che decritta la medaglia e avrete il Codice da Vinci.

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