“SCINTILLE DANTESCHE” IN CINA
SCRITTE DAL VEN. P. GABRIELE ALLEGRA,
LETTORE DELLA DIVINA COMMEDIA.

prof. Vittorio Capuzza
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Il Venerabile Padre Gabriele Maria Allegra fu un autentico lettore di Dante. Nel 1965, in occasione del VII Centenario dalla nascita del Poeta, annotò ogni giorno dell’anno in un diario le Sue riflessioni sulla Divina Commedia. Così fece anche per tutto l’anno 1967: all’incipit di quest’ultimo diario annotò a mò di titolo: Scintille dantesche.
E’ il lettore il vero erede (haeres ex testamento) della Divina Commedia, nello spirito però dell’ammonimento che Dante ci presenta nella terza Cantica:
“ O voi che siete in piccioletta barca,/ Desiderosi d’ascoltar, seguiti/ Dietro al mio legno che cantando varca, /Tornate a riveder li vostri liti: /Non vi mettete in pelago; chè forse/ Perdendo me, rimarreste smarriti.” ( Par., C. II, vv. 1-6).
Come scrivevamo con il compianto mio Maestro, il prof. Fausto D’Ammando – grazie al quale conobbi, studiai e meditai le preziose annotazioni di P. Allegra – le vie nuove per una lettura della sua Commedia sono le “antiche vie della fede, pur sempre nuove, insegnate al poeta dai grandi maestri della sua età” (in Dante con Dante, Roma, 1998).
Quello che avvenne nel pensiero dell’uomo medievale, soprattutto nel campo della teologia e del diritto canonico, fu questo incontro tra la storia della civiltà e l’eterna novella evangelica. Dante e la sua Commedia sono una testimonianza di questo incontro, “Perché la Divina commedia abbraccia tutto quanto l’intelligenza può contenere, e l’amore umano dare. Il cielo e la terra. L’eternità e il tempo. Il mistero che è in Dio e gli accadimenti della storia del mondo. (…) Tutto il pensiero esistente prima di Dante è stato da Dante trasferito nella dimensione più alta della semplicità, della profondità, della concatenazione del tutto. Le idee di Platone, la sintesi aristotelica, la singolare intuizione agostiniana della storia (come fluire del tempo), la ricapitolazione operata da san Tommaso, questo spirito angelico, denso di fermezza e di misura, il fervore di san Bonaventura, l’ardore di san Domenico, l’avvento puro di san Francesco d’Assisi, la tenerezza ascetica e regale di san Bernardo” (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Milano, 1967, p. 150-151).
La posizione storica di Dante, e con il Poeta di tutto il medioevo come momento di rinascita, è simbolicamente racchiusa nella gravissima obiezione dubitativa “Io non Enea, io non Paulo sono” (Inf., C. II, v.10), risolta da Dante con l’accettazione, al momento, per umiltà e per fede, del viaggio ultraterreno; l’obiezione valeva tutto il significato storico, teologico, giuridico, morale e spirituale della Commedia.
Il viaggio di Dante, allora, non sostanzia un esilio da intendersi come la giuridica deminutio capitis, bensì è il tempus tacendi biblico, il pellegrinaggio verso Dio “Ultima salute”, divenendo Dante catecumeno e poi figliuol di grazia nel cielo dell’assoluto.
Tutta la Commedia è da leggersi entro il messaggio evangelico, a cominciare dal significato dell’esilio.
Il Ven. P. Allegra aveva chiaramente conosciuto questa valenza teologica della Commedia di Dante, ne aveva assaporato il gusto cristiano, ne aveva meditato il senso e lì aveva riconosciuto la fede di un uomo investito gratuitamente dalla grazia e in cammino perciò verso Dio: itinerarium mentis in Deum.
Sull’esilio così P. Allegra scriveva il 1° gennaio 1967: “Nel Purgatorio Dante trova il suo luogo nel cerchio dei superbi, ci si domanda: si è trovato il posto in Paradiso? A me par di sì. Il posto che Dante si assegna quando sarà entrato nel regno dell’eterna pace è il Cielo di Mercurio (…). Anzi sono persuaso che nella figura di Romeo egli abbia rappresentato, senza volerlo, se stesso. Chè, da quando fu bandito in esilio, errò anche lui per molte regioni d’Italia “mendicando sua vita frusto a frusto”, senza che molti dei suoi concittadini si accorgessero del cuor ch’egli ebbe”.
P. Allegra legge l’esilio di Dante nella cornice del grande amore che il Poeta ebbe come fede verso Dio e come carità verso i fratelli; così scrive il 6 aprile 1965: “Carisma dell’ispirazione a parte, la sorte futura del pensiero di Dante, io la vedo uguale a quella del messaggio di S. Paolo. Ogni qualvolta i movimenti, i desideri, le meditazioni dell’unione e della comunione, commuovono, esaltano, turbano il cuore dell’uomo ci si trova davanti S. Paolo. E, anche davanti a Dante, il poeta dell’armonia, dell’umiltà, della comunione, dell’amore. Si fa tanto parlare dei suoi sdegni e delle sue condanne e non si pensa che essi sono una espressione del suo amore. Il poema sacro è poggiato specialmente su questa base: l’amore. Amor di Dio e per Dio, amore dell’uomo, amore per tutti gli uomini”. E ancora, il 21 gennaio 1965: “E venni dal martirio a questa pace. Il Paradiso è la pace in Dio; è il regno della gioia, della pace, della luce. Questi tre concetti formano la trama, il colore, direi pure, il sapore di quei 33 dolcissimi e rutilanti canti. ‘N la sua voluntade è nostra pace. L’esule, nella pace della casa del Padre trovava il conforto per sopportare le tristezze della vita presente. Praticava l’insegnamento di S. Francesco: “Tanto è il bene che m’aspetto / ch’ogni pena m’è diletto”. Venga ver noi la pace del tuo Regno”.
La Chiesa di Dante è la Chiesa di Francesco d’Assisi, di Caterina da Siena, di Pier Damiani; la Sponsa Christi che s’alza “a mattinar lo Sposo perché l’ami”. In tale ottica, fortemente impressionante è la lettura che P. Allegra offre del Veltro: “Il veltro vincerà la cupidigia, la lupa; basterebbe per questo un santo, un altro S. Francesco; ma la concezione dantesca delle due autorità impedisce di tirare detta conclusione, che pure mi seduce di tanto in tanto” (12 febbraio 1965).
Con la coscienza della identificazione, compiuta dal Poeta, della sua poesia con la Teologia, dualità realizzata secondo lo spirito tipicamente medievale, possiamo senza dubbio affermare che la Commedia è rivolta al lettore teologico, a quell’erede, cioè, non offuscato da pregiudizi antistorici, razionalisti o romantici, e comunque imbevuti di schemi ideologici ed estetici.
E che non sia più tempo di maturazione secondo queste strade ormai da abbandonare, lo dimostrano le grandi letture dantesche compiute dai sommi poeti, cristiani e non, che segnarono, ognuno per propria parte, il cammino della nostra vera tradizione culturale.
Basti pensare alle parole che Boccaccio adopera nei riguardi della poesia dantesca: “ E certo se le mie parole meritano poca fede in sì gran cosa io non me ne turberò; ma credasi ad Aristotele (…) il quale afferma, sé aver trovato i Poeti essere stati li primi teologanti”. E Foscolo, come marchio indelebile, aggiunge a tali considerazioni che “niuno mai scrisse definizione più sublime insieme e sì esatta della poesia “.
Oppure si pensi al riconoscimento implicitamente compiuto da Giacomo Leopardi in una sua geniale riflessione, contenuta nelle pagine 3497-3509 dello Zibaldone.
Lungo tale visione della poesia teologale, annota P. Allegra che “dopo Dante, in Italia, non è mancata la poesia Biblica, ma – parlo da ignorante – è una poesia che si ferma all’esteriore mondo biblico, che manca di intima profondità, e del senso del mistero. Qua e là Leopardi dimostra cosa avrebbe potuto fare in questo campo e perciò ci desta un acuto rammarico” (11 marzo 1965).
Che fosse giunto il momento di leggere la Divina Commedia con lo stesso spirito del Boccaccio nella Chiesa di S. Stefano di Badia, lo intravide, nella sua saggezza, Paolo VI, il quale con la Litterae Apostolicae Motu proprio “Altissimi cantus”, datata 7 dicembre 1965, restituì a Dante il diritto di cittadinanza nella Chiesa militante, tutto riscontrato nel fatto che Dante porta il kerugma della “Terza lettera” di S.Pietro (Par., C. XXVII) ed il messaggio di Beatrice ai teologi.
Padre Gabriele Allegra con la sua lettura della Commedia di innesta in questa intimità del messaggio cristiano celebrato da Dante e riconosciuto da papa Paolo VI: in data 26 novembre 1967 nel diario compone una preghiera a Dante, ove afferma: “Tu sei più teologo di molti teologi moderni”.
Ristabilito tale diritto nella Chiesa militante, va riconosciuto per Dante il tempo biblico del parlare. Tanto è profonda la poesia teologica di Dante, che il Ven. P. Allegra medita con la Commedia il significato del Triduo Pasquale. Ad esempio, il giovedì santo 15 aprile 1965 viene celebrata così la ragione del credere con riferimento alla terzina 57-59 del Par. VII: “solo chi ama Dio, anzi solo chi è adulto nella fiamma d’amore, può comprendere in qualche modo il decreto, onde Dio stabilì di salvare il genere umano, mediante l’Incarnazione del Verbo”. Il giorno di Pasqua 18 aprile 1965, P. Allegra annota così: “…Io era nuovo in questo stato / Quando ci vidi venire un Possente / con segno di vittoria coronato. (Inf. 4, 52-54). Una delle allusioni di Dante alla resurrezione di Cristo. Il Possente incoronato con segno di vittoria: vincitore della morte, del peccato, dell’inferno e di Satana. Penso che l’Apocalisse è il commento più celeste alla vittoria del Resuscitato. Colui che ci ama : ille qui diligit nos, è l’Agnello sgozzato sin dal principio del mondo. Il mistero è il prezzo del Sangue dell’Agnello! L’Alighieri è affascinato dal Sangue dell’Agnello, è stupito di fronte a questo ineffabile prezzo del nostro riscatto: l’Agnel di Dio che le peccata tolle…là dove il suo Fattor lo sangue sparse”.
Nella lettura della Commedia alla luce della Redenzione operata da Cristo, lo sguardo si posa amorevolmente su Maria SS.ma, corredentrice nostra, “Colei ch’ad aprir l’Alto Amor mosse le chiavi”; così il Venerabile Padre scrive: “Maria, secondo queste solenni parole di Dante, compie un atto che nessun’altra creatura ha compiuto, o a dir meglio: ha potuto compiere. Un atto che tocca Dio e l’umanità. Ma sopra tutto tocca Dio. Lui che è Amore, voleva donarsi…ma questo suo amore era chiuso, rinserrato, impedito di donarsi dalla nostra colpa, dalla nostra mancanza di amore. Maria possiede le chiavi per aprir la porta, il varco per cui passerà, strariperà l’amore di Dio, queste chiavi sono: la sua immacolata innocenza, che poi altro non è che fiamma viva di carità, e la sua ineffabile umiltà, che è quasi un vuoto infinito che attrae l’Amore Infinito” (2 maggio 1967).
Non siamo mai soli: è la speranza di chi crede ed ama. A questa corrispondenza al divino volere ci sostiene Maria SS.ma: “La Tua benignità non pur soccorre / A chi domanda, ma molte fiate, /liberamente al dimandar precorre” (Par., C. XXXIII, vv. 16-18). Il Ven. Padre Gabriele Allegra annota il 7 maggio 1967: “Questa è l’esperienza di Dante ed è pure l’esperienza dei più umili fedeli. La Madonna vien loro in soccorso, prima d’esserne richiesta, perché è Madre benigna e generosa. E, cosa ancora più commovente, Essa sente tanta pena per gli smarriti, per quelli che hanno già meritato il duro giudizio di Dio, che la sua preghiera di Madre, Madre del Salvatore e Madre degli uomini, frange quel duro giudizio e assicura la salvezza ai disperati. Esempio classico di questa consolante verità, nella Divina Commedia è quello di Bonconte da Montefeltro: “Quivi perdei la vista e la parola; / Nel nome di Maria finii; e quivi / Caddi e rimase la mia carne sola” Purg. V, 100-102. Fu una sola lagrimetta, una invocazione e fu salvo. Ora nunc et in hora mortis nostrae. Amen”.

Roma, 27 aprile 2009

prof. Vittorio Capuzza

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