Dante, un stella globale (e pop)
Lo speciale sul Dantedì

Zygmunt Baranski illustra la vivacità internazionale degli studi sul poeta:
«Assurdo che l’Italia non abbia ancora una giornata dedicata a lui»

Dante, un stella globale (e pop) Lo speciale sul Dantedì Illustrazione di Francesca Capellini (particolare)
shadow

Di padre polacco e di madre marchigiana che si conobbero in Italia alla fine della guerra e nel ’47 si trasferirono in Inghilterra, Zygmunt Baranski ha insegnato a Reading, nell’istituto di italianistica fondato da Luigi Meneghello, poi ebbe la cattedra d’italiano a Cambridge e dal 2011 è all’Università di Notre Dame, uno dei centri accademici più prestigiosi degli Stati Uniti. Tutti lo chiamano Zyg e per Carlo Dionisotti era il Polacco. Uno degli ultimi ricordi del grande studioso? «Un giorno passandomi accanto alla British Library si accorse che stavo consultando l’edizione critica di Rajna del De vulgari eloquentia, mi toccò la spalla e mi disse: “Siamo rimasti in pochi a leggere certe cose”». Ha ben poco, Baranski, dei «baroni» universitari che conosciamo: è spiritoso, non ama le formalità. Dante è il suo cavallo di battaglia da anni. La bibliografia è lunghissima.

«All’inizio degli anni Novanta, invitato a Ravenna per la commemorazione annuale del poeta, pensai: non sarà un pubblico solo di accademici… di cosa posso parlare? E allora mi posi la domanda: dov’è andato Dante a scuola, che tipo di educazione ebbe? Mi colpì che nelle biografie non c’era quasi niente, non si andava molto oltre ciò che dice Villani nella Cronica a proposito della situazione scolastica fiorentina. Si pensava genericamente a Dante come a colui che aveva letto tutti i libri ma che cosa circolava a Firenze a quel tempo? L’idea che abbiamo della Firenze fine Duecento è un’immagine sbagliata: la confondiamo con la grande Firenze del Rinascimento, pensiamo a un centro intellettuale di altissimo livello».

Invece?
«La Firenze del tardo medioevo non era uno dei grandi crocevia culturali in Italia e in Europa, era una città di grande sviluppo commerciale, ma le scuole? C’erano una scuola primaria e due tipi di secondarie, non un’università. Firenze non era Bologna e neppure Arezzo. L’accesso agli studia religiosi per persone laiche era limitato e l’idea che Dante potesse andare a leggere tutti i libri che si trovavano in Santa Croce è un’invenzione nostra».

Quali grandi domande rimangono aperte su Dante?
«Dobbiamo lavorare sulla storia delle idee, sulla cultura e sulla sua circolazione. Per capire la formazione di Dante, bisogna capire che le citazioni che inserisce nelle sue opere sono a volte dei luoghi comuni, sententiæ che circolavano: difficile pensare che, in ogni caso, Dante si sia letto il testo intero da cui le citazioni di questo tipo sono tratte…».

Con qualche eccezione, però.
«Nella Commedia, Dante “spreca” mezzo verso per far dire a Virgilio che conosce tutta quanta l’Eneide: a noi moderni sembra ridondante, ma aver letto tutta l’Eneide in una cultura compilatoria, enciclopedica, di florilegi come quella medievale è tutt’altro che scontato, anche perché i libri costavano e circolavano piuttosto a caso».

«Dante e i segni», il libro uscito nel 2000, in che direzione va?
«Cercavo di dimostrare che in Dante c’è molta tradizione aristotelica ma l’idea di un Dante strettamente aristotelico, dominante allora negli studi, è eccessiva. Oggi non parlerei più di neoplatonismo ma direi piuttosto che Dante è un eclettico, un sincretista, prende elementi di qua e di là che poi interpreta e armonizza. Secondo me il modello è quello cristiano dell’ordine dell’universo, l’idea del volume che lega l’universo nella mente di Dio, come appare alla fine del viaggio nel XXXIII del Paradiso».

Dunque, sulla scuola di Dante che cosapossiamo dire oggi?
«Possiamo dire che ha seguito poca scuola istituzionale, era un laico con accesso limitato sia alle strutture educative, in particolare l’università con la quale forse non ha avuto alcun legame, sia in generale ai libri: leggere nel Medioevo era un passatempo arbitrario, difficilmente praticabile. Per un intellettuale medioevale sarebbe impensabile avere gli 8 mila libri che io ho in questa casa, senza pensare ai controlli che io posso fare on line in 5 minuti. A me piace molto una storiella raccontata da Boccaccio».

Quale?
«Nel Trattatello c’è Dante a Siena, durante il Palio, che vede un libro presso uno speziale e si mette a leggerlo senza più sentire niente del casino intorno, dimenticando la festa… Ecco, questa è una verità storica, la possibilità di inciampare in un libro per puro caso nella bottega di uno speziale».

È stato valorizzato anche il versante della cultura dei predicatori e dei Mendicanti.
«Ci sono nuove ricerche che sottolineano l’importanza della religione popolare, le forme in cui i credenti in senso lato avevano accesso al cristianesimo e i modi in cui partecipavano alle pratiche religiose».

Per esempio?
«Prendiamo i laudari: quante laudi avrà sentito Dante! Adesso si comincia a lavorare sui rapporti, mediati, con la Bibbia, che circolava dappertutto in vari modi, per esempio attraverso le citazioni scritturali nella predicazione e nella liturgia. Il lavoro sulla liturgia è importante, oppure quello sulle confraternite fiorentine o sulle questioni quodlibetali, le dispute che avvenivano due volte l’anno in Santa Croce e a cui i laici potevano partecipare con delle domande… Bisogna fare una sorta di microstoria per capire meglio il carattere dei testi danteschi».

Si chiamano fonti come una volta?
«Io insisto sempre sui “forse”: bisogna sempre avere una certa cautela, muoversi con rispetto per il passato, ma è vero che si stanno aprendo nuovi spiragli».

Rispetto alle celebrazioni del 1965 cosa è successo di nuovo?
«La quantità di studi e pubblicazioni, dalle riviste alle edizioni dotte, si è moltiplicata: parliamo di 2 mila interventi l’anno. Anche uno pedante come me fa fatica a seguire tutto. Noi in Inghilterra ci siamo trovati come in politica: stretti tra l’Europa e l’America, abbiamo provato ad assorbire la lezione filologica italiana (io devo molto a Contini) senza ignorare la responsabilità di interpretare. Dico sempre agli studenti: fatta una bella scoperta, che cosa significa?».

L’Italia è diffidente verso gli studi americani e britannici?
«Ci sono colleghi italiani che leggono bene l’inglese e hanno rapporti buoni con il dantismo di lingua inglese, così è cresciuto un vero dialogo che per molto tempo non c’è stato. Io da giovane ci tenevo a presentarmi un po’ come ponte, anche per questo ho sempre scritto sia in italiano sia in inglese. Sappiamo quali sono le fazioni dei diversi gruppi di dantisti in Italia, ma nei workshop di Notre Dame che teniamo nella nostra sede romana invitiamo persone anche in conflitto tra loro».

Che cosa dice Baranski di un Dantedì?
«In altre nazioni abbiamo le giornate dedicate ai vari classici ed è strano che il Paese che vanta lo scrittore occidentale più importante e certamente il più innovativo e originale non abbia una giornata a lui dedicata. Anche solo per questione di public relation, per l’immagine che la cultura italiana vuole proiettare, è assurdo. C’è un enorme interesse per Dante ovunque, anche al di là di Roberto Benigni. Lino Pertile, dell’università di Harvard, sta finendo un libro su come Dante nella Commedia abbia voluto introdurre elementi che la rendessero attraente al grande pubblico. C’è però un pericolo…».

Quale?
«Mi preoccupa che passata la festa si possa dire: bene, adesso passiamo ad altro, come si fa per la giornata della birra… ne riparliamo l’anno prossimo. Ritengo invece che in Italia bisognerebbe ripensare a come si insegna Dante a scuola e in università. È assurdo che in Nord America e in Gran Bretagna si insegni Dante in maniera spesso più impegnata di quanto si faccia in Italia. Questo è un problema. Non vorrei che le trombe e le bandiere per la giornata di Dante facessero pensare di aver risolto tutti i problemi. Io auspicherei una giornata che stimoli la riflessione anche su questi temi».

C’è un segreto per affascinare gli studenti leggendo Dante?
«Io ho sempre avuto le aule piene e ho capito che insegnare Dante è un privilegio ma anche una cosa facile, perché Dante ha già fatto praticamente tutto il lavoro. L’italiano nel mondo universitario anglo-americano, nonostante la crisi delle materie umanistiche, è salvato da Dante, il cui fascino va ben oltre le materie letterarie. Lo si studia nei dipartimenti di teologia, filosofia, storia, storia dell’arte, ma anche geografia per le implicazioni cosmologiche… Soprattutto però bisogna lavorare sui tanti livelli di cultura in cui Dante è riuscito a penetrare: all’estero è presente dappertutto, ci sono studi e traduzioni, ma è presente anche nella popular culture: nella fantascienza, nel noir, nei videogiochi, nel cinema, nella musica pop… Quanti altri scrittori e artisti funzionano a tutti questi livelli?».

L’iniziativa

In vista del settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri (1265-1321) il «Corriere della Sera» ha lanciato l’idea di istituire una giornata per il poeta. La proposta, partita da un articolo di Paolo Di Stefano il 24 aprile scorso, ha raccolto molte adesioni, tra cui quella del ministro degli Esteri uscente, Enzo Moavero Milanesi, che, in una lettera al direttore del «Corriere» Luciano Fontana, ha espresso il suo appoggio al Dantedì (questo il nome che il linguista Francesco Sabatini ha coniato per la giornata dedicata a Dante). Il 4 luglio alla sede del quotidiano si è tenuta una tavola rotonda sul tema, organizzata da Fondazione Corriere, cui hanno partecipato gli studiosi Alberto Casadei, Claudio Marazzini e Luca Serianni. I materiali sul Dantedì sono raccolti nello speciale online.