IVAN SIMONINI

Il 31 agosto lo studioso, che ha dedicato la sua vita agli studi danteschi, presenterà per la prima volta il suo libro

RAVENNA. Il suo carattere spinoso, ben noto in città, è soltanto una corazza di comodo. Basta avere il tempo di rifletterci assieme e l’editore mostra il suo vero volto, ironico e appassionato. Ivan Simonini, classe ’49, direttore delle Edizioni del Girasole, ha dedicato la sua vita agli studi danteschi; l’occasione di intervistarlo è la recente pubblicazione del libro I mosaici ravennati nella Divina Commedia, che presenterà per la prima volta il prossimo 31 agosto, nella sala rossa del Pala De André, alle 18. Sulla terrazza del suo buen retiro di Lido Adriano, Simonini ha voluto approfondire con il Corriere qualche tema dantesco, fra passato e futuro.

Questo libro è il risultato di un lungo lavoro di studio iniziato nel 1987. Come mai ci ha messo così tanto a scriverlo?

«Sono fatto così, devo macinare. L’interesse per la storia della città e dei suoi grandi protagonisti l’ho coltivato fin da giovane. Ho cominciato a scrivere attorno ai 35 anni. Non l’avrei mai fatto se Fabio Camerani non m’avesse forzato a scrivere per la pagina culturale della Pulce cinque cartelle a settimana. I materiali sono stati poi raccolti ne “La basilica degli specchi”, dove c’era già un capitolo intitolato “In Paradiso un arredo di mosaici”».

Aveva già individuato allora l’importanza dei mosaici ravennati per Dante?

«Dante non cita mai le sue fonti, a meno che non sia costretto dalla narrazione. Si può pensare dunque che i mosaici siano un’ispirazione minore o casuale per la Divina Commedia. Io invece sostengo che i mosaici siano stati una delle più importanti fonti per Dante».

I dantisti la pensano come lei?

«Mi sono reso conto che i dantisti non conoscono i mosaici – figurati quelli di Ravenna; e gli esperti di mosaico non conoscono la Divina Commedia. Ma la vera scintilla è scoccata con Corrado Ricci. Non solo ne L’ultimo rifugio di Dante, nel 1891, scrive che il Giustiniano di San Vitale ha ispirato quello di Dante. Di più, è stato lui, capo della prima soprintendenza italiana, a eliminare tutti gli orpelli che impedivano la libera fruizione dei mosaici».

Altri studiosi hanno sottolineato l’importanza dei mosaici per Dante?

«Sì. Si va da Pascoli a Laura Pasquini, passando per Carlo Ossola: alcune voci si sono levate a sottolineare questa importanza. Ma i grandi commentatori danteschi, di fatto, ritengono la fonte musiva di minore importanza. Eppure sono una fonte fondamentale, almeno quanto la Bibbia o Tommaso d’Aquino».

Lei ad esempio sostiene un interessante parallelismo fra i mosaici dell’abside di San Vitale e la teoria politica del “De Monarchia”. Addirittura chiama Dante il primo “studioso” dei mosaici ravennati. Senza i mosaici ravennati la Divina Commedia sarebbe stata diversa?

«È una domanda oziosa, perché di fatto la Divina Commedia è piena dei mosaici ravennati. Naturalmente sarebbe stata diversa. Magari sarebbe stata più bella».

Perché dice “piena” se, come registra nel suo libro, le possibili analogie musive non superano il 3% dei versi complessivi?

«Le fonti di Dante sono un centinaio. I versi sono 14mila e rotti. Se li dividiamo per cento fa 140. Il 3% (400 versi) è un’enormità. Fino a questo libro, chi si è occupato della materia si è concentrato solo sul Purgatorio e sul Paradiso. Ma Dante comincia già nell’Inferno a inserire riferimenti precisi ai mosaici. E il suo interesse non si ferma ai mosaici bizantini, ma anche a quelli posteriori, come quelli di San Giovanni Evangelista, realizzati nel XIII secolo. Ecco perché parlo di mosaici “ravennati” e non solo bizantini».

Il ciclo dedicato alla Quarta Crociata.

«Esatto. Per Dante questi mosaici hanno un’importanza autobiografica, legata al suo “vero” padre, il suo antenato nobile, Cacciaguida. Ma questa è una storia lunga».

Pare che il fil rouge della sua attività sia dedicato a dare più importanza a Ravenna negli studi danteschi. Anche in questo libro, una tesi sottesa è che la permanenza di Dante qui sia stata molto più lunga di quanto la maggior parte degli specialisti non sia disposta a credere.

«Alcuni dicono che Dante è arrivato qui il 1317; altri il ’18, il ’19 o il ’20. Non ho ancora sentito nessuno dire il ’22, ma ci si arriverà. Io credo sia rimasto a Ravenna per più di 6 anni».

Se la si accusasse di faziosità?

«Io sono di Modena, che come sa è equidistante da Ravenna e da Firenze. Sono neutrale. Due anni fa ho addirittura proposto che le ossa di Dante venissero portate a Firenze per una settimana a ricevere l’alloro poetico. Non ho nulla né pro Ravenna né contro Firenze. Sono i fiorentini che non amano Dante».

Ha avuto alcuni riscontri da parte di specialisti?

«Non ho inviato il volume a molti studiosi. Il dantista Enrico Malato, ad esempio, mi ha dato un riscontro positivo, dicendo in sintesi: è chiaro che non si potrà mai avere la prova provata di questa influenza, ma intanto sono stati raccolti dei fatti. Dante non cita mai la parola “mosaico” direttamente, ma indirettamente i casi sono numerosissimi. Le prove definitive le lascio ai deboli di mente».

Presenterà il libro la prima volta alla Festa dell’Unità, assieme a Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.

«Sì. Ermanna interpreterà il passo più feroce della Divina Commedia. Marco leggerà le terzine abbinate alle immagini dei mosaici che saranno proiettate su uno schermo. E io cercherò di giustificare le analogie proposte, circa 20 delle 80 che ho raccolto».

Lo scorso maggio ha criticato il criterio di scelta del Comitato nazionale per il Settecentenario per la mancanza di una personalità ravennate.

«Nel 1921 tutto ruotava intorno a Ravenna: Corrado Ricci era un’autorità nazionale, Luigi Rava, ravennate, era il sindaco di Roma, don Mesini inizia a prepararsi già nel ’14. Oggi dobbiamo ancora cominciare. Le personalità del comitato vanno benissimo, ma la scelta è sempre schiacciata sul dantismo e sulla filologia. Nessun poeta, nessuno scienziato, nessuno storico. Senza parlare dell’esiguità della risorse stanziate».

La nostra amministrazione ha delle responsabilità, secondo lei?

«Quando si parla dell’anniversario della morte di Dante, è Ravenna che deve guidare. Firenze per la nascita: la logica deve essere questa. Il funzionario tecnico per il 2021 è un dipendente del Comune di Firenze. Era dovere della nostra amministrazione impuntarsi».

Cosa ne pensa delle proposte locali, presentate lo scorso luglio? La Dante Design Gallery, il monumento in mosaico…

«Concentriamoci sul monumento. Due anni fa, ai candidati sindaco feci la proposta di fare un grande monumento a Dante sulla foce del Candiano. Ma grande, come il Cristo di Rio, che diventi il simbolo della città nel mondo. Un monumento in mosaico da collocare in una piazza ravennate è il trionfo del provincialismo, che si limita a tenere assieme le eccellenze del territorio. Che immagine vogliamo dare di noi? Da un’idea del genere può uscire solo un capolavoro del kitsch».

Crede che modificare la toponomastica sia una risposta adeguata per la rivalutazione dell’eredità dantesca?

«Visto che le proposte di livello alto non sono state accolte, ho provato col livello basso. Che sembra tale, ma non lo è: la toponomastica rimane per sempre. La cosa non mi sarebbe nemmeno passata per la testa se, passando per via Guido Novello, non avessi visto che entrambe le date della targa erano sbagliate. Se non avessi notato che mancava via Jacopo Alighieri, primissimo commentatore della Divina Commedia. E così via. C’è ancora tanto lavoro da fare».