«Tra le scienze la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli, che tanto si avvicini alla realtà umana e getti uno sguardo luminoso sulla verità divina». Questa confessione di un grande teologo come Karl Barth nella sua Introduzione alla teologia evangelica (1962) propone la stessa emozione che secoli prima Dante aveva sperimentato e suggerito, rivelando il suo volto di teologo, soprattutto nel Paradiso. Ed è appunto, entrando nel quarto cielo, dominato dal sole, “lo ministro maggior de la natura” (v. 28), tappa decisiva dell’ascesa verso lo zenit supremo divino, che il poeta intesse una riflessione teologica che ora vorremmo simbolicamente raccogliere in un trittico.

Il canto della luce
A dare sostanza a questo abbozzo sono i 148 versi del canto X del Paradiso, che segna il transito verso i cieli superiori ove ormai del tutto remota è l’ombra della terra e glorioso si dispiega il moto de “l’alte rote” (v. 7), quelle sfere celesti che tanto appassionavano anche il Dante astronomo. Una prima scena della nostra ideale trilogia potrebbe intitolarsi il canto della luce. È facile, infatti, subito riconoscere che quasi ogni verso della pagina poetica è irradiato dallo sfolgorare della luce che, come insegna tutta la tradizione biblica, è immagine del divino, al punto tale che san Giovanni non esiterà nella sua Prima Lettera (1,5) a coniare la celebre definizione ho Theòs phôs estin, “Dio è luce”. La luce può mirabilmente rappresentare sia la trascendenza divina (è esterna a noi e inafferrabile) sia la sua immanenza (ci individua, ci avvolge, ci attraversa, ci riscalda e fa vivere). Anche per Dante Dio è “il Sol de li angeli” (v. 53).
A irrompere innanzitutto è, però, il sole fisico che “col suo lume il tempo ne misura” (v. 30), l’astro che – come si è detto – impera nel quarto cielo e che non può essere travalicato (“sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse”, v. 48). Occhieggia per un istante anche la luna, “la figlia di Latona” (v. 67), ma per il poeta la luce solare, che pure è studiata nelle sue meccaniche celesti, è soprattutto una metafora di una luminosità interiore sulla scia delle parole di Cristo: «La lucerna del corpo è l’occhio» (Matteo 6, 22). È per questo che Beatrice svela “lo splendor de li occhi suoi ridenti” (v. 62). Ma sono soprattutto gli spiriti beati che poi incontreremo ad essere la vera luce spirituale: essi, infatti, brillano più della stessa luminosità solare (vv. 40-42) e l’aggettivo che Dante adotta per definirli è appunto “lucenti” (vv. 40; 66).
Essi sono “vivi e vincenti” la stessa luce solare e, quindi, destinati a superare anche l’umana capacità visiva. Simili alla folgore (v. 64), sono “ardenti soli” (v. 76) o “come stelle” sfavillanti (v. 78). Anzi, per definirli il poeta ricorre costantemente alla parola “luce” (vv. 109; 118; 136), ora “bella”, ora “piccoletta”, ora “etterna”, ora “lume” (vv. 73; 115; 134). Il loro è un “fiammeggiare” (vv. 103; 130). E la sorgente di questa luminosità è trascendente: è, infatti, “lo raggio de la grazia” divina col quale “s’accende verace amore” (vv. 83-84), facendo sì che l’anima risplenda “di luce in luce” (v. 122). Siamo, allora, nel cuore della teologia che ha nella cháris, la “grazia” di Dio, la sua sorgente, come insegnava san Paolo, tenendo conto che questa categoria teologica implica la radicale trasformazione della persona da schiavo a figlio adottivo, la sua rigenerazione in “nuova creatura”, attraverso la vicenda battesimale che non per nulla era denominata photismós, “illuminazione” (cf. Efesini 5,13-14), mentre il Cristo giovanneo entrava in scena proclamando: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).

Il canto della contemplazione
In stretta connessione con la luce è naturalmente la visione. È per questo che la seconda parte del nostro ideale trittico potrebbe essere definita il canto della contemplazione. È suggestivo che l’incipit del canto X sia affidato a un “guardare” divino (v. 1), a cui si associa il “rimirare” umano (v. 6). L’appello dantesco rivolto al “lettore” è, perciò, quello di “levare” in alto lo sguardo dell’anima, a “vagheggiar”, cioè a contemplare con amore sia l’opera cosmica di Dio sia il suo mistero trascendente. Sulla creazione, infatti, il Creatore “mai da lei l’occhio non parte” (v. 12): è la provvidenza divina che incessantemente si appunta sulla creatura per sostenerla nell’essere. Similmente l’uomo deve “credere” ora con gli occhi della fede, nell’attesa e nella “brama di vedere” attraverso la piena visione beatifica (v. 45).
Il percorso di questa contemplazione è arduo perché la nostra stessa fantasia è insufficiente a immaginare abissi di luce così profondi, anche perché l’esperienza del nostro occhio non ha mai intuito una realtà più luminosa del sole (vv. 46-48). Il nostro è, quindi, solo un “prelibare” (v. 23) parziale e imperfetto rispetto a un orizzonte infinito. Ecco, allora, la necessità per l’uomo di essere “levato per grazia” divina (v. 54). Solo così, condotto per la “scala” celeste (v. 86), riesce a “vedere”; e questo verbo è spesso reiterato dal poeta per designare la sua stessa esperienza nell’itinerario celeste (vv. 64; 145), È un “vedere” che dà gioia e godimento (v. 124), e che è attuato attraverso “l’occhio de la mente” (v. 121).
Ma ora, dopo aver sottolineato come la contemplazione sia la via privilegiata della conoscenza paradisiaca, Dante delinea ed esalta anche l’oggetto di quella visione. E lo fa soprattutto in apertura e in finale al canto, anticipando quanto affermava Barth sulla felicità che prova il teologo quando fissa lo sguardo nel mistero dell’essere divino e umano. L’attacco del canto è solenne e punta direttamente a quel gorgo di luce che è il mistero trinitario. È sempre sorprendente vedere come nell’arco di una sola terzina e con una decina di parole Dante riesca a formulare la dottrina cattolica della Trinità, affrontando persino la famosa questione del Filioque, ossia della processione dello Spirito Santo, cioè l’ “amore”, sia dall’ “uno”, che è il Padre, “lo primo e ineffabile Valore” (potenza), sia dall’ “altro”, il Figlio: “Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira, / lo primo e ineffabile Valore… ” (vv. 1-3).
Ma la contemplazione trinitaria svela anche l’agire divino; ossia la creazione che Dio opera, e qui Dante propone la tradizionale via “analogica” già presente nel libro biblico della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore» (13, 5), tema liberamente ripreso da Paolo in Romani 1, 20. Infatti, afferma il poeta, Dio creò i cieli e il cosmo con un ordine così perfetto che chi lo contempla non può non intuire e gustare la perfezione divina che in essi si dispiega: “con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira” (vv. 5-6). Per questo Dante poi si abbandona alla contemplazione astrale, coinvolgendo anche il suo interlocutore: “Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista…” (vv. 7-8). E ciò che si scopre non è una mera opera di architettura cosmica bensì un vero e proprio atto d’amore.
Il Creatore rivela un’ “arte” da “maestro”, vale a dire da signore e artefice che la sua opera “dentro a sé l’ama, / tanto che mai da lei l’occhio non parte” (vv. 10-12). L’amore di Dio che presiede alla creazione continua ininterrottamente così da assicurare vita ed esistenza alla sua opera; è un amore che fiorisce all’interno di Dio stesso, per cui il creato è in qualche modo nel cuore di Dio. La dottrina trinitaria si riaffaccerà a metà del canto quando si ricorderà che i beati del quarto cielo, “la quarta famiglia” di Dio, sono “saziati” nella visione dell’intimo processo trinitario che si compie nell’essenza divina: quella “famiglia” di santi, infatti, “l’alto Padre sempre la sazia / mostrando come spira e come figlia”, rivelandole cioè la generazione del Figlio e la “processione” dello Spirito Santo (vv. 50-51).
Ma, come si diceva, anche la finale del canto X ritorna alla contemplazione del mistero divino, una contemplazione di purissimo e gioioso abbandono d’amore, come già si suggeriva nel v. 59 ove Dante dichiarava che “tutto ‘l mio amore” era trasfuso in Dio. L’immagine ora evocata è di taglio musicale, a due livelli di armonia. C’è prima il tintinnare dell’orologio che scandisce nell’alba ancor incerta il sorgere della Chiesa, la “sposa di Dio”, che si leva a “mattinar lo sposo” divino perché la ami. La scena, dipinta nelle due terzine dei vv. 139-144, è di straordinaria fragranza, tutta percorsa da ammiccamenti all’uso degli innamorati di elevare il loro canto sotto le finestre dell’amata. Quel “tin tin”, che risuona “con sì dolce nota” e che fa fremere l’anima fedele che si “turge” d’amore appassionato, richiama l’altra immagine musicale esplicita, quella del coro dei beati che canta “in tempra”, cioè in piena armonia – quasi fosse uno strumento “ben temperato” – la sua lode a Dio, creando nel poeta una sensazione talmente alta di bellezza da fargli pregustare l’eterna felicità paradisiaca, “colà dove gioir s’insempra” (vv. 146-148).

Il canto della sapienza
A popolare il cielo del sole sono gli spiriti dei sapienti, di coloro che consacrarono la loro esistenza terrena alla ricerca della verità sia nella teologia sia nelle scienze umane, cioè il diritto, la filosofia, la grammatica, e nell’attività concreta di governo e di opere, come fu per Salomone, emblema della sapienza biblica, che qui è pure convocato. Chiameremo, perciò, questa terza tavola del nostro trittico ideale, il canto della sapienza. Dante ordina questi sapienti in due cori di dodici spiriti ciascuno e il canto X fa sfilare la prima sequenza di personaggi che hanno per corifeo il grande Tommaso d’Aquino (la seconda entrerà in scena nel canto XII). È stato detto suggestivamente che si riesce a intravedere in questi due elenchi quasi la biblioteca di Dante e anche le sue predilezioni, come accade nel nostro canto per Boezio e per Sigieri di Brabante.
Le immagini che rappresentano questo ideale congresso di sapienti sono affascinanti: è una “corona” luminosa (v. 65), fatta di “ardenti soli” (v. 76), è una “ghirlanda” di fiori (v. 92), è “lo beato serto” (v. 102), è la “gloriosa rota” (v. 145), è il “coro” (v. 106). E a descrivere la perfetta armonia, pur nella diversità delle voci (anzi, proprio per questa ideale policromia), è appunto la citata raffigurazione corale finale (vv. 146-148), ritmata sul tintinnare d’un orologio, a cui possiamo associare la precedente rievocazione del loro canto che si sviluppa in una danza, capace di richiamare l’armonia dei moti siderali (vv. 78-81). È qui che Dante riesce plasticamente a cogliere quell’emozionante momento di sospensione – quasi un “fermo-immagine” – in cui le danzatrici sostano per un istante tra l’una e l’altra figura del loro movimento, quando si ha la pausa musicale tra la strofe e l’antistrofe della loro danza.
Bellezza e armonia si sposano, però, con la profondità del pensiero di questi dodici sapienti, vere e proprie “luci” nel cammino della ricerca teologica e filosofica. Sì, Dante, fedele alla sua Weltanschauung che distingueva senza separare o opporre religione e politica, fede e ragione, vuole qui ribadire in modo simbolico la sua concezione. E lo fa ponendo in rilievo – accanto alla serie dei pur ammirati e celebrati Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Orosio, Isidoro di Siviglia, Beda Venerabile e Riccardo di San Vittore – due figure emblematiche. Da un lato, Severino Boezio, l’originale mediatore tra la cultura classica e la cristiana, al quale vengono riservate due commosse e intense terzine (vv. 124-129), espressione anche di una sintonia nel comune travaglio vissuto dal filosofo e dal poeta a livello culturale, personale e politico.
D’altro lato, ecco emergere un po’ provocatoriamente alla fine Sigieri di Brabante, il maestro parigino dalla “luce etterna” (v. 136), paradossalmente celebrato dal suo avversario teorico, Tommaso d’Aquino. Egli che fu contestato per la sua affermazione radicale dell’autonomia della filosofia e della razionalità rispetto alla fede, viene appunto posto su un piedestallo proprio per la sintonia che Dante sente vibrare col suo pensiero. Si ha, così, la libertà e la sincerità appassionata del poeta, ma si ha anche la testimonianza della profonda sofferenza che può generare la sapienza cosciente e coerente, nella linea di quanto confessava un sapiente biblico, il Qohelet/Ecclesiaste, che nel dir questo s’era tra l’altro rivestito del manto di Salomone: «Grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre» (1,18). Sigieri, l’araldo di “invidïosi veri”, cioè di verità invise e scomode (v. 138), fu così torturato nei suoi pensieri acuti e liberi da dover quasi desiderare la morte (” ‘n pensieri gravi a morir li parve venir tardo”, vv. 134-135).
Ma è significativo che in cielo a celebrare così altamente Sigieri sia proprio – come si diceva – colui che lo contestò aspramente in terra, ed è altrettanto significativo che a cantare le glorie di san Francesco sarà il domenicano Tommaso d’Aquino (canto XI), così come a esaltare san Domenico sarà incaricato il francescano san Bonaventura (canto XII). Le due scuole, la domenicana e la francescana, che si confrontavano vigorosamente e fin duramente nell’accademia terrena, ora nella sapienza celeste s’incontrano e s’incrociano non più per un duello, ma per un abbraccio, nella bellezza dell’armonia molteplice e nell’umiltà della contemplazione della luce divina, che ora si compie non «in uno specchio, in maniera confusa, ma vedendo a faccia a faccia» (1 Corinzi 13,12). Si ferma qui il nostro sguardo dall’alto su questo canto dantesco. Ora è il momento, conclusa la fase delle presentazioni introduttorie, di proseguire, nell’ascolto pieno e approfondito, lungo lo svolgersi dei versi: “Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba” (v. 25).

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