La Divina Commedia, oggi

Articolo di Maurizio Teroni  tratto dal sito  (http://www.stradepossibili.it/?p=1803)
Strano: oggi Dante Alighieri e la sua opera sono considerati la massima espressione letteraria italiana, eppure pochi come lui hanno covato disprezzo e denunciato la vergogna di un paese frammentato in mille scontri interni, corrotto, dominato dal nepotismo, asservito ai vari poteri, su tutti a quello di una chiesa che inneggia al Bene ed è continuamente complice del peggio.
Comunque la si prenda, la Divina Commedia è un testo scomodo, difficile da digerire. Dante non è andato molto per il sottile. Ha piazzato all’inferno papi, uomini di potere, eroi della storia e della mitologia, il proprio maestro, il primo tra i suoi amici. Fu così aspro da rasentare il sacrilegio. Il suo Monarchia, tanto fu considerato indigesto al potere ecclesiastico da essere condannato al rogo (1329), con l’accusa di eresia.
Nella Divina Commedia egli ha saputo fondere insieme leggenda e storia, mitologia e cronaca del proprio tempo. Forse l’efficacia di quest’opera (che è andata al di là di sé stessa, facendosi mito e realtà psicologica) sta proprio nell’aver saputo cogliere qualcosa di profondo dell’animo umano, del nostro paese e nella nostra cultura e che (per quanto situato in un contesto lontano da noi e per noi – esseri postindustriali – incomprensibile) risulta attuale. Riesce a suggerirci qualcosa che va al di là della propria epoca e della cultura in cui è nato.
Witold Gonbrowicz accennò, in Contro i poeti, alla disumanità di Dante: come è possibile condannare a pene così crudeli, per l’eternità, gli uomini?
Io non so. È difficile dire se Dante davvero credesse a ciò che scriveva, nel senso che non possiamo sapere se realmente egli credesse che esista un sistema di punizioni e premi ultraterreno così organizzato e lineare. Eppure, per quanto favolistica, l’organizzazione della Divina Commedia è impregnata di verità e di un proprio realismo interno. Verità, perché si avverte che Dante non sta mentendo: ciò che racconta gli nasce da una profonda onestà intellettuale, come se stesse sinceramente raccontando qualcosa che ha visto, qualcosa che esiste. Realismo interno, perché quelle condanne, quelle sofferenze, quei dialoghi paiono disegnati su uno sfondo di concretezza. Egli ha colto, nell’invenzione letteraria, qualcosa di profondamente vero. Il suo racconto non appare come il frutto di fantasia, ma del ricordo. È questa, in fondo, la sua straordinaria capacità narrativa: farci credere alla realtà dell’inferno. Questa capacità è da imputarsi fondamentalmente al suo linguaggio, che è costruito su un artificio retorico attentamente concreto. Le pene dell’inferno e lo stralcio psicologico dei personaggi che ne soffrono sono descritti con esattezza chirurgica, per quanto rapida. Egli è decisamente un grande maestro di scrittura, perché ha saputo cogliere l’essenza di ciò che rappresentava, mantenendosi sempre in una linea di demarcazione molto sottile e puntuale. In questo senso, Dante è paragonabile solo a Kafka, altro grandissimo scrittore, che ha saputo inoltrarsi dentro il cuore del sogno e portare alla luce l’incredibile realtà che esperiamo sognando.
Non sappiamo, dicevo, se Dante credesse davvero nell’esistenza dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso. Boccaccio, nell’ Esposizione sopra la Divina Commedia, racconta un simpatico aneddoto: alcune donne, vedendo passare Dante per strada, commentano: “Vedete colui che va ne l’inferno, e torna quando gli piace, e quasi reca novelle di coloro che là già sono?” E un’altra donna risponde: “In verità tu dèi dire il vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è la giù?”
Non possiamo stabilire l’attendibilità di questo aneddoto, però ci offre idea della diffusione popolare che già all’epoca aveva la Divina Commedia e offre uno spunto per considerare quale credibilità potesse avere la sua narrazione.
Boccaccio aggiunge che Dante, avendo sentito le parole di quelle donne, procede in silenzio e si lascia sfuggire un sorriso. Chissà perché sorride? Forse semplicemente per vanità o perché, in cuor suo, pensa: ci credono.

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