TUTTODANTE/ La pietà di Benigni “distrugge” l’Inferno di Dante

Siamo al canto XVI dell’Inferno. E Roberto Benigni è una esplosione di parole e di immagini, travolge gli spettatori di TuttoDante facendoli diventare con lui attori, protagonisti di un cammino che lo stesso che Dante ha compiuto. Questo è ascoltare Benigni che si addentra nel fetore dell’Inferno, il male viene preso tra le braccia e portato di peso, così che appaia meno violento di quello che è. Si ripete il miracolo del comico toscano, la sua capacità unica di redimere il male, la sua tensione a salvare i dannati raccontando. Questo è Benigni, non Dante! Appare ancor più evidente che Benigni imprime al racconto dantesco la sua pietà, la sua misericordia che bisogna capire se sia la stessa di Dio.

Ha ragione Benigni a sostenere che Dante vuol dividere il peccato dal peccatore, e lo documenta in modo esplicito. Ma la questione non è riducibile a questo, ciò che Benigni ha ancora da cercare è la ragione di questo, se la divisione del peccato dal peccatore sia genericamente sostenere che un uomo non sia riducibile al suo peccato, ma a questo punto che senso avrebbe l’Inferno? Oppure se il peccatore si trovi di fronte a una sconfitta più grande del suo stesso peccato, alla impossibilità di cancellare l’umano. Che cosa è allora l’Inferno di Benigni?

La pietà, è questo l’inferno di Benigni, un inferno in cui il peccatore ha una ultima dignità, ma una domanda a questo punto diventa legittima: è questo l’Inferno di Dante? Interessante questa sfida che le parole di Benigni portano, l’immagine che lui ci vuol dare della dignità dei peccatori, e mentre racconta di Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, tre comandanti fiorentini, tre grandi uomini, c’è da parte di Benigni una ultima tenerezza che attutisce la bruttura del male, tanto che ce li fa apparire giustificabili. Sono dannati, terribilmente dannati, ma umani, terribilmente umani!

È stupendo questo modo di raccontare, ma è Dante questo, o non rimane forse Benigni? Com’è stupendo e coinvolgente il suo modo di raccontare: ci porta dentro le miserie infernali, ci mette faccia a faccia con i peccatori, ci fa vedere la fogna in cui vivono questi uomini, ma più lo ascoltiamo più una domanda ci assedia, è la domanda del perché mai questo sia Inferno? Benigni li salva, questa è la sua drammatica pietà, qui sta il suo dramma nel leggere il Dante dell’Inferno e lo si percepisce passo dopo passo, se fosse per lui, questi sodomiti, come gli altri peccatori, li trarrebbe tutti dai luoghi infernali.

La domanda rimane, guai a risolverla, e perché mai lo si dovrebbe? Rimane aperta la domanda di che cosa significhi mai leggere Dante, di come si possa leggerlo. E ancor di più quando Benigni ci parla del fondo del male, quando descrive il presentarsi sulla scena nuotando la personificazione della frode, Gerione. È una descrizione spettacolare, un capolavoro assoluto! E non a caso Benigni è entusiasta: di che cosa è entusiasta? Del fatto che l’umano si liberi dai lacci del peccato; c’è una pietà che è più grande di quel male di cui Dante sente il fetore, ma che ci arriva attenuato, senza la puzza da cui origina.

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