Le difficoltà della Chiesa e l’attualità della Divina Commedia
Nell’atmosfera sospesa, gravida di timori e novità, venutasi a creare dopo l’annuncio sconvolgente delle dimissioni di Benedetto XVI, Dante Alighieri torna improvvisamente d’attualità. Non solo e non tanto perché nel Canto III dell’Inferno il poeta riserva due celebri versi (59-60) a “colui / che fece per viltade il gran rifiuto”, facendo con ogni probabilità allusione alla figura, ormai notissima, di Papa Celestino V. Ma soprattutto perché il fiorentino è stato senza dubbio uno dei più aspri fustigatori dello “spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini” – come lo ha definito nei giorni scorsi Ernesto Galli della Loggia, in una delle più lucide analisi sulla sorprendente e dolorosissima decisione del Santo Padre -, spettacolo che, nel corso della sua storia millenaria, la struttura centrale del governo della Chiesa ha offerto più volte.
La convinzione di Dante, ricorrente in molti luoghi della Divina Commedia, è esplicita: i turpi vizi, l’arrivismo, la discordia (e con essa i “seminator di scandalo e di scisma” che il fiorentino relega all’inferno) e le basse ipocrisie nascoste all’ombra della Parola e della Chiesa di Dio vanno sdegnosamente censurati; la corruzione morale e il tradimento della missione evangelica sono da stigmatizzare e deplorare. Il biasimo è però sempre rivolto al peccato e ai singoli interpreti della istituzione, mai alla istituzione in sé e alla tradizione che da secoli essa incarna.
Qualche esempio? Nel Canto XXVII dell’Inferno il poeta si scaglia contro Bonifacio VIII, “il gran prete, a cui mal prenda!” (v. 70), ovvero “lo principe de’ novi Farisei” (v. 85). Nel Canto VI del Purgatorio gli strali danteschi sono invece rivolti alle gerarchie ecclesiastiche senza distinzioni, ree di essersi appropriate abusivamente del potere temporale: “Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar sedere Cesare in la sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota” (vv. 91-93).
Ma è nel Canto XXI del Paradiso, quando Dante incontra l’umile e contemplante spirito di San Pier Damiano – uno dei più illustri Dottori della Chiesa -, che la condanna della diffusa corruzione del clero diventa evidente, vibrante, durissima. “Venne Cefàs e venne il gran vasello / de lo Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello. / Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi / li moderni pastori e chi li meni, / tanto son gravi!, e chi di retro li alzi”: attraverso questa scena michelangiolesca, il poeta contrappone la semplicità e la carità degli apostoli Pietro e Paolo ai corrotti principi della Chiesa, così pingui, tronfi e superbi da aver bisogno di qualcuno che tenga sollevato lo strascico dei loro sfarzosi abiti. L’apostrofe contro il nauseabondo spettacolo dei “moderni pastori”, tristemente violenta, si conclude addirittura con un amaro richiamo alla pazienza di Dio che sopporta una simile enormità: “oh pazïenza che tanto sostieni!”.
Le parole di Dante suonano purtroppo quanto mai attuali. Ad alcuni giorni di distanza dalla dolorosissima rinuncia di Benedetto XVI pare ormai evidente che a sollecitare la decisione del Santo Padre abbiano concorso una serie di fattori. Non ultima – e, anzi, forse preponderante – la profonda afflizione, la ferita al cuore del Papa per le lacerazioni e gli scandali, piuttosto somiglianti a quelli che il poeta fiorentino sferzava già sette secoli fa, di cui da tempo la Chiesa soffre. Dalle rivalità in seno alla Curia romana alle insidie dei corvi, dal dramma della pedofilia alla opacità dello Ior.
Le polemiche che continuano ad affiorare dai Sacri Palazzi – con tanto di alti prelati che rilasciano inquietanti dichiarazioni anonime, come quelle apparse sul Corriere della Sera dello scorso 13 febbraio -, il posizionamento dei diversi schieramenti in vista del prossimo Conclave e le difficoltà connaturate alla transizione, sembrano preannunciare per la Chiesa e per il suo popolo altri giorni difficili. Ancora una volta però torna d’attualità Dante, con un passo del Canto V del Paradiso (vv. 76-78), che, adattato all’oggi, suona come un invito ai fedeli a non smarrirsi mai. Neppure nei momenti in cui i marosi dell’incertezza imperversano violentemente: “Avete il novo e ’l vecchio Testamento, / e ’l pastor de la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento”. Nella speranza che la divina Provvidenza restituisca al gregge dei credenti un nuovo Papa santo e una Chiesa, come scrive San Paolo nella Lettera agli Efesini (5, 26-27), “piena di splendore, senza macchia né ruga, senza difetti”, degna del sacrificio di Cristo.