Se Dante va in Paradiso sulle orme di Maometto
I debiti del poeta toscano nei confronti dell’Islam. La nuova edizione del Libro della Scala riporta alla ribalta un aspetto meno conosciuto della Commedia
La poesia delle origini della lingua italiana sembra interessare un numero sempre più largo di lettori, soprattutto quando si annunciano novità, magari note agli specialisti ma poco divulgate al vasto pubblico, e certamente originali rispetto al sapere usualmente trasmesso a scuola. Tanto che negli ultimi mesi i maggiori quotidiani nazionali dedicano al tema intere pagine.
Dopo l’articolo firmato da Cesare Segre sul Corriere della Sera del 13 giugno (vedi N. Ghetti su Babylon Post, ndr), che annunciava il ritrovamento di manoscritti di poesie della Scuola siciliana trascritte in Lombardia e nella versione originale prima che in Toscana, eccone uno nuovo, sempre di Segre, dal titolo intrigante: Maometto prima di Dante all’Inferno. Un viaggio miracoloso che precede o forse ispira la “Commedia”. Ma è solo apologetico.

L’occasione è la pubblicazione per la Bur del Libro della Scala di Maometto, edizione filologica a cura di Anna Longoni della traduzione latina fatta da Bonaventura da Siena: esule in Spagna dopo il 1260, il notaio utilizzò la versione spagnola dell’originale arabo (perduto), commissionata dal re Alfonso il Savio alla metà del Duecento. Una trafila, come si vede, assai complessa, che attesta l’intensità dei legami tra cultura araba ed europea nell’età medievale. Il racconto del viaggio notturno (mi’raj) di Maometto, con la guida dell’arcangelo Gabriele e a cavallo di Buraq, cavalcatura dal volto di donna, dalla Mecca a Gerusalemme, e da là all’inferno e infine in paradiso lungo la scala dei sette cieli, prende le mosse dalla sura XVII del Corano. Il racconto ispirò nei secoli diverse elaborazioni letterarie arabe sul tema, con affinità che al lettore attento di Dante non potevano non evocare la Commedia. È quanto ai primi del Novecento evidenziò per primo Miguel Asín Palacios, eterodossa figura di gesuita, valente arabista e docente all’università di Madrid, nel suo Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia.

Asín Palacios riscontrò nella secolare letteratura sufi derivata dal mi’raj di Maometto sorprendenti analogie con il poema dantesco non solo nell’architettura, ma anche in numerose creazioni fantastiche e in episodi interi. In particolare si soffermò su due elaborazioni della leggenda, Il libro del viaggio notturno dell’arabo-spagnolo Ibn Arabi, scritto nel secolo di Dante, e L’epistola del perdono del siriano Abul Ala, del secolo precedente. Due poeti che, in un passaggio critico della vita, si volgono a riconsiderare la propria trascorsa ricerca sull’amore dalla prospettiva mistico-allegorica di un viaggio filosofico, compiuto nell’oltretomba con l’accompagnamento di un saggio.
È la stessa vicenda narrata da Dante nella Commedia, quando all’uscita dalla selva oscura volge le spalle all’esperienza poetica stilnovista e alle simpatie filosofiche averroiste giovanili, e con la guida di Virgilio compie il suo itinerario di espiazione verso Dio. Rivivendo, attraverso i gironi dell’abisso infernale e le sfere celesti, situazioni e sensazioni del viaggio notturno di Maometto: dalla legge del contrappasso che regola le pene, fino al timore che la luce divina lo possa accecare, e che la memoria offuscata dall’esperienza mistica del ‘trasumanare’ non gli consenta di trovare le parole per descriverla.

Il libro di Asín Palacios, che pose fine all’eclissi pressoché totale sugli importanti legami intercorsi tra letteratura araba ed europea nel tardo Medio Evo, scatenò feroci polemiche e stroncature da parte dei custodi dell’ortodossia dantesca. Idee inattuali, alla luce dei fascismi che dominarono la cultura europea dei primi decenni del Novecento, segnarono per lo studioso l’ostracismo, toccato negli stessi anni anche a Bruno Nardi. Il valente dantista italiano in mezzo secolo di ininterrotte ricerche, raccolte in Dante e la cultura medievale, mise tuttavia in crisi la concezione monolitica del tomismo integrale della Commedia, riportando alla luce gli eterodossi retroscena aristotelico-averroisti e mistico-avicenniani della formazione del poeta. Ed era da poco finita la seconda guerra mondiale quando il ritrovamento del manoscritto del Libro della Scala a cura di Enrico Cerulli offrì la conferma del lavoro di Asín Palacios, e spianò la strada alle successive ricerche di Maria Corti. Della geniale studiosa per l’occasione viene riproposto nel Libro della Scala il più famoso dei saggi su Dante e l’Islam, tratto dalla silloge Scritti su Cavalcanti e Dante.

Ormai è dunque innegabile: Dante, instancabile lettore, non poteva non conoscere almeno Il libro della Scala, la cui diffusione in Italia è testimoniata all’epoca della stesura del Poema sacro. Tra la Commedia e la letteratura araba del viaggio all’oltretomba le differenze ovviamente ci sono, ma le analogie sono suggestive. Ci sembra ad esempio interessante osservare come all’indeterminatezza se il viaggio di Maometto svoltosi in una sola notte sia stato, come alcuni teologi islamici sostengono, un sogno, oppure un evento reale come vuole la tradizione popolare, si sostituisca in Dante l’esplicita affermazione di avere realmente compiuto l’ascensione attraverso i sette cieli, fino alla visione di Dio, proprio con il corpo con il quale era venuto al mondo:

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ‘l ciel governi,
tu ‘l sai, che col tuo lume mi levasti.

La dichiarazione di poetica posta in apertura del Paradiso (canto I, 70-75) è un chiaro indizio dello scarto tra la rappresentazione fiabesca del viaggio dei testi arabi e quella che Dante presenta come la descrizione di un fatto veramente accaduto, secondo le regole consolidate del realismo occidentale: differenza che meriterebbe di essere approfondita. Penso ai nessi possibili con il dogma cristiano dell’incarnazione. Penso alla distanza anche linguistica tra una concezione dell’arte come libera espressione della fantasia, oppure come strumento di edificazione morale, quale intende essere non solo la Commedia, ma tutta l’attività letteraria dantesca a partire dalla Vita nova.

Quello che qui interessa sottolineare è che questo filone di studi centenario, finalmente riconsiderato, apre la ricerca su scenari mediterranei tardomedievali ancora poco conosciuti. Poesia, musica, filosofia naturale, medicina, ottica, geometria, astronomia: gli scambi con la raffinata cultura araba erano allora, come ormai è dimostrato, all’ordine del giorno in Spagna, in Linguadoca e in Sicilia. Ovvero precisamente nei luoghi in cui con la poesia d’amore – tradizione del tutto assente nella letteratura cristiana medievale – nacquero, in opposizione al latino della Chiesa, i nuovi idiomi volgari. E mentre i crociati combattevano contro gli infedeli nella decina di ‘pellegrinaggi armati’ che si succedettero in meno di due secoli, i poeti delle origini della nostra lingua leggevano con attenzione i testi arabi, resi ancora più accessibili dalle scuole di traduzione promosse da Federico II in Sicilia e da Alfonso il Savio a Toledo.

Quanto a Dante, che in gioventù all’università di Bologna aveva condiviso con Guido Cavalcanti non solo lo Stilnovismo, ma anche gli studi di filosofia naturale degli averroisti parigini, condannati come eretici nel 1277 dall’arcivescovo Tempier, è interessante ricercare nella Commedia le numerose tracce di quel passato. Le scopriremo magari in alcune calcolate oscillazioni presenti nel Poema sacro, per le quali ad esempio se Maometto è orribilmente punito tra i «seminator di scandalo e di scisma» nel canto XXVIII dell’Inferno, Averroè e Avicenna, i grandi commentatori arabi delle opere di Aristotele sconosciute in Europa, sono invece onorati nel castello degli «spiriti magni» del Limbo, accanto ai maggiori pensatori greci. E Sigieri di Brabante, filosofo e docente averroista, scomunicato a Parigi dal vescovo Tempier e assassinato nella curia Orvieto nel 1282, si trova addirittura in Paradiso tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, accanto al suo avversario Tommaso d’Aquino. In virtù, certamente, della fama di un pentimento tardivo.
Così il maestro e ‘primo amico’ Guido Cavalcanti, poeta dell’amore irrazionale per la donna e «massimo esponente» della rivolta duecentesca al pensiero teocratico (A. Gramsci), è destinato a raggiungere «color che l’anima col corpo morta fanno» nel girone degli eretici, mentre Ulisse, per la folle presunzione della conoscenza senza la grazia divina, è condannato con i suoi compagni al naufragio. Dante invece, convertitosi dalla filosofia alla teologia, dall’amore per la donna all’amore per Dio, come un novello Adamo è da Dio direttamente ispirato nel ridare il nome alle cose. Guidato da Virgilio, purificherà il sensuale volgare d’amore delle origini mutuato dai Siciliani, latinizzandolo e rendendolo «illustre, cardinale, aulico, curiale». Adatto ad essere strumento di cristiana redenzione dal peccato.

Noemi Ghetti

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