SENTENZA DI MORTE PER DANTE

Gian Paolo Marchi Nell’Archivio di Stato di Firenze si conserva il «Libro del Chiodo», così chiamato per i chiodi infissi nel legno della sua legatura. Il volume, recentemente riprodotto a cura e con introduzione di Francesca Klein, registra le condanne inflitte tra il 1268 e il 1379 dalla Parte guelfa ai suoi avversari politici, appartenenti a famiglie di ribelli ghibellini o di guelfi bianchi. Tra le personalità oggetto dei provvedimenti di condanna spicca il nome di Dante Alighieri (l’anno prossimo ricorrono i 700 anni dalla morte) travolto dalle turbolenze politiche che videro i Neri di Corso Donati prevalere sui Bianchi, le cui case (forse anche quella di Dante) furono abbandonate al saccheggio. Il 27 gennaio 1302, sulla base di una legge ad personam, che consentiva di sottoporre a nuovo procedimento i priori dei due ultimi anni già assolti in precedente giudizio, il podestà di Firenze Cante de’ Gabrielli da Gubbio emetteva una sentenza di condanna in contumacia nei confronti di Dante e di altri quattro cittadini di parte Bianca: dura conclusione di un processo la cui parzialità traspare dalla stessa formulazione delle imputazioni. Vi si dava credito, infatti, ad un’accusa di «baractarias, lucra illicita, iniquas extorsiones in pecunia vel in rebus». L’accusa era basata non su testimonianze, ma su voci diffuse («fama publica referente»): il giudice rinunciava a individuare le responsabilità personali di quegli odiosi delitti, che si dicevano appunto commessi o personalmente o per mezzo di altri; mentre scopertamente politica era un’altra imputazione, quella vera, che individuava in Dante e nei Bianchi la responsabilità di aver esiliato i Neri e di aver opposto resistenza all’intromissione nella politica fiorentina di Bonifacio VIII e del suo “paciaro” Carlo di Valois. La pena irrogata consisteva in una multa di cinquemila fiorini da pagare alla cassa del Comune di Firenze; una volta pagata la multa, e restituito il maltolto agli aventi diritto, i condannati avrebbero subito il bando per due anni «extra provinciam Tusciae»; inoltre, qualora la multa non fosse stata pagata entro tre giorni, i beni dei condannati avrebbero subito devastazione e confisca. Dante, non essendosi presentato, era stato con altri condannato a morte in contumacia, con sentenza emessa il 10 marzo 1302; un provvedimento votato nel giugno dello stesso anno comminava la stessa pena anche ai figli dei condannati, appena avessero compiuto il quattordicesimo anno di età (Enrico Malato, Dante, Roma, Salerno Editrice, 1999, pp. 49-50). Già prima della morte del poeta la Commedia fu letta appassionatamente da quanti vi ravvisavano non solo l’espressione di un inarrivabile genio poetico, ma anche un messaggio di rinnovamento morale, spirituale e politico. A Firenze, soprattutto per impulso di Giovanni Boccaccio, il culto dantesco si diffuse in ogni strato sociale. Larga adesione ebbe l’istanza intesa a traferire le spoglie di Dante da Ravenna a Firenze: una petizione in tal senso presentata nel 1519 al papa Leone X fu sottoscritta anche da Michelangelo. Nessuno pensò tuttavia ad annullare la sentenza che comminava la pena di morte a Dante e ai suoi discendenti. Ad avviare la pratica ci pensarono gli eredi del poeta, stabilitisi a Verona con il giudice Pietro, al quale tennero dietro Dante II, Leonardo, Pietro III e Dante III). A Dante III (1463 circa – 1511) dedicarono approfondite indagini il Maffei, il Mistruzzi e l’Avesani; anche il Croce ne tracciò un garbato profilo. Qui basterà ricordare che ricoprì importanti cariche pubbliche e che fu stimato poeta in latino e in volgare. Nel 1509, determinato ad abbandonare la città occupata dgli Imperiali, con moglie e figli si ritirò a Mantova, dove si spense, «addolorato del suo esilio e tormentato dalla povertà, in che era caduto per la rovina delle sue terre in conseguenza della guerra». Le qualità di poeta di Dante III vennero riconosciute da Angelo Poliziano, che così ne parla in una lettera in data Firenze 5 giugno 1490, inviata a Lorenzo il Magnifico: «Mandovi una elegia d’uno discendente di Dante Alighieri, che si chiama Dante, quinto dal Poeta, e terzo nel nome, el qual a Verona conobbi; e vedrete una epistola di sua mano, dove si ricorda di me: m’è paruta una novellizia da cotesto luogo e tempo». Tanto l’elegia quanto l’epistola sembrano disperse; ma si può supporre che i rapporti dei discendenti di Dante con l’ambiente fiorentino siano andati oltre l’episodio narrato dal Poliziano. Di sicuro sappiamo che la Signoria di Firenze — con provvedimento in data 31 dicembre 1494, confermato a larghissima maggioranza (ma non all’unanimità) — liberava Dante III, e tutti i discendenti del Ghibellin fuggiasco, da qualunque bando di ribellione emesso da qualsivoglia autorità della città, del contado e del distretto di Firenze. Il provvedimento — che risente forse dell’appello all’amnistia generale lanciato dal Savonarola nella predica del 14 dicembre 1494 — stabilisce «che il detto messer Dante s’intenda esser et sia libero da qualunche bando, relegatione o rebellione o qualunche altro preiudicio ne’ quali in qualunque modo o per qualunche tempo fussi incorso», e «s’intenda restituito in quello stato et grado nel quale sarebbe, se lui o alcuno suo ascendente non fusse stato sbandito, relegato o fatto rebelle: solo peraltro «in quanto alla città et agli honori, uficii et qualunche altri beneficii di decta città». La formula limitativa riguardava gli aspetti fiscali del provvedimento: il bando era cancellato, ma ciò non comportava l’esenzione dalle tasse, da fissare con apposito provvedimento: «Et possino ed debbino i presenti Uficiali del Monte, e quelli che pe’ tempi fussino, infra dua mesi dal dì che sarà ripatriato, porgli quella gravezza che a loro parrà et piacerà; la quale sia tenuto pagare come gli altri cittadini fiorentini, infra quelli tempi et termini che per decti Uficiali o le dua parti di loro sarà deliberato». Fin qui, i termini del provvedimento sembrano ispirati a equità, se non ad equanimità; ma su Dante III incombeva un ultimo adempimento, che riguardava la tassa di registrazione della delibera: «Et sia tenuto pagare, per la taxa della presente Provisione fiorini quattro larghi d’oro al Camarlingo della Cassetta del Monte, infra uno mese dal dì che venisse nella città di Firenze».